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“Romanzo di una strage”, la verità di Giordana su Piazza Fontana

Milano, 12 dicembre 1969. Alle 16 e 37, al numero 4 di piazza Fontana, l’esplosione di una bomba devasta la Banca Nazionale dell’Agricoltura, provocando 17 morti e 84 feriti. E’ l’inizio della “strategia della tensione”, che insanguinerà l’Italia per anni. A condurre le indagini, orientate verso la pista anarchica, sono il commissario Luigi Calabresi e i suoi superiori, Marcello Guida e Antonino Allegra. Tra i primi fermati c’è il ferroviere Giuseppe Pinelli: si sospetta sappia qualcosa sui movimenti di Pietro Valpreda, un ballerino senza scritture cacciato dal circolo degli anarchici dallo stesso Pinelli, per la sua inclinazione alla violenza. Il ferroviere rimane in caserma oltre i limiti di legge fino a quando, dopo tre giorni di digiuno e insonnia, precipita dalla finestra dell’ufficio di Calabresi. Il commissario non è nella stanza ma, grazie ai goffi tentativi dei colleghi di giustificare l’accaduto (si parla prima di suicidio, poi di incidente), finisce per diventarne il responsabile. Vittima di una violenta campagna denigratoria da parte di Lotta Continua, non rinuncia a indagare sulla strage: scopre un traffico di armi che rivela i legami tra neonazisti veneti e “forze oscure”, organizzate per contrastare un’eventuale occupazione sovietica e forse avallate dallo Stato. Calabresi, però, non va oltre: due mesi più tardi, nel maggio del 1972, trova la morte sotto casa, ucciso da un commando di due persone.

Marco Tullio Giordana, già autore di capolavori sul cinema civile come “I cento passi” e “La meglio gioventù”, è il primo a tentare la ricostruzione cinematografica dell’attentato in piazza Fontana. Il titolo, “Romanzo di una strage” (nelle sale con 250 copie targate Cattleya-Rai Cinema), prende spunto da un coraggioso articolo che Pier Paolo Pasolini scrisse sul Corriere della Sera nel 1974,“Io so, ma non ho le prove”, e coraggiosa è la prova del regista come dei suoi sceneggiatori, Sandro Petraglia e Stefano Rulli. Perché il film, non solo cerca di far luce su un argomento vastissimo e complicato (in oltre 35 anni si sono susseguiti 11 processi e quattro procedimenti approdati in Cassazione, con il riconoscimento di due esecutori materiali, i neofascisti veneti Franco Freda e Giovanni Ventura –  non più processabili – e l’assoluzione di tutti gli imputati), ma mette mano a una questione ancora bollente. Chi si nascondeva dietro l’azione dei terroristi neri? Quanto c’è di vero nel “Memoriale” che Aldo Moro affidò alle Brigate Rosse, dove si indicavano nei rami deviati del SID (il disciolto servizio segreto italiano), con probabili influenze dall’estero, i possibili mandanti della strage? Come morì Pinelli? E perché l’assassinio di Calabresi non sarà mai rivendicato? Si è trattato, scrive Giordana nelle note di regia, di “vendetta del proletariato”, “ritorsione neo-nazista” o di una “operazione sotto copertura dei servizi segreti”?

Tra le pieghe dell’analisi storica, il regista cerca di rispondere a tutte queste domande e lo fa non tanto per chi c’era, che un’idea ben confezionata se l’è fatta da tempo, piuttosto per i giovani che, dice, “sanno poco o nulla di quegli anni e hanno il diritto di sapere”. Il genere scelto è appunto il romanzo: ci sono i capitoli, che aiutano a rendere chiara la materia, dividendo i fatti dalle supposizioni; ci sono i protagonisti e i comprimari; e c’è l’ispirazione di una storia presumibilmente vera, il libro-inchiesta del giornalista Paolo Cucchiarelli (“Il segreto di Piazza Fontana”, edizioni Ponte alle Grazie), da cui la tesi delle due bombe (una dimostrativa piazzata dagli anarchici, l’altra letale appartenente ai terroristi di Ordine Nuovo). A primo acchito viene da dire che i giovani andranno a vederlo: il film potrebbe appassionare chi conosce i fatti e chi non li conosce perché, pur rispettando il più possibile la verità storica, coinvolge come un giallo senza mai abbandonare l’obiettivo di denuncia.

Merito di una scrittura ricca di dialoghi e di un grande cast che, pur riportando sullo schermo personaggi reali, riesce a non scimmiottarli. E’ il caso dei due protagonisti, Valerio Mastandrea-Calabresi e Pierfrancesco Favino-Pinelli, entrambi in una delle prove migliori, delle rispettive consorti, Laura Chiatti e Michela Cescon, ma anche dei tanti comprimari. Dal Moro di Fabrizio Gifuni al Federico Umberto D’Amato di Giorgio Colangeli, dal Giuseppe Saragat di Omero Antonutti al questore Marcello Guida di Sergio Solli, fino ai terroristi Ventura e Freda (Danis Fasolo e Giorgio Marchese), tutti contribuiscono alla riuscita di una pellicola non facile. All’anteprima milanese “Romanzo di una strage” è stato lungamente applaudito: c’erano i familiari delle vittime (paradossalmente condannati a pagare le spese processuali), i dirigenti dei partigiani d’Italia, gli anarchici del circolo di Pinelli e alcuni magistrati, come Guido Salvini, che anni fa ha riaperto l’inchiesta sulla strage. Forse non si arriverà mai alla verità giudiziaria, ma sui giornali si è tornato a parlare di misteri e insabbiature, mentre a quei morti e a quei sopravvissuti, almeno al cinema, un po’ di giustizia è stata restituita.

Alcuni commenti della critica: 

“Un cast eccellente, che pur inseguendo la via obbligata della mimesi, non cade mai nella macchietta o nel cabaret e sa restituire la credibilità e lo spessore della cronaca storia. Correndo però un rischio: quello di razionalizzare troppo i fatti, di ‘semplificarli’ per renderli intellegibili e cancellare così l’atmosfera di angoscia e di tensione dell’Italia di quegli anni”.
Paolo Mereghetti, Corriere della Sera

“La forza espressiva del film sta nel lasciare fuori campo tutti gli eventi luttuosi, s’intende non per addolcire il punto di vista, ma proprio per concentrarsi sulle forzature, le trappole, le deviazioni istituzionali”.
Michele Anselmi, il Riformista

“Un film secco e pudico quello di Marco Tullio Giordana che mette mano (e cuore) su una delle pagine più tragiche della nostra storia recente. (…) Potenzialmente popolare, il cinema di Giordana prova ancora una volta a superare le rigidità ideologiche e a recuperare l’umanità del gesto, ricostruendo l’Italia di allora con scrupolo filologico (e giuridico) di grande rigore”.
Marzia Gandolfi, MYmovies.it

“Un film sorprendentemente misurato, una pellicola rigorosa e chiara che riduce al minimo gli elementi spettacolari per puntare le sue carte su una scansione del racconto che non conosce sosta e avvolge lo spettatore in un movimento continuo”.
Francesca Fiorentino, Movieplayer.it


2 Commenti

  1. Su cosa stava indagando Ca­labresi? Il 5 luglio del 1975 i giornali parlano di un dettagliato rapporto su un traffico di armi che coinvolge i fascisti veneti, scritto da Cala­bresi una ventina di giorni prima della sua morte. Ma di questo rap­porto non si trovano tracce. Il commissario sarebbe arrivato a individuare questo traffico partendo dall’inchiesta sulla morte dell’editore Giangiacomo Feltrinelli. Non è comunque, una traccia nuova. Già nel 1974 (cfr. Unità 17 mag­gio 1974) si era avanzata l’ipotesi di una connessione tra l’inchiesta Feltrinelli e l’uccisione di Calabresi. Sicuramente però l’uccisione del commissario si pre­sta alla propaganda tesa a riaffermare la necessità di ristabilire “ordine e autorità”. Se ne ac­corge anche, pur con un analisi rozza, il bollettino della FNCRSI diretto da Romolo Giu­liana: “L’assassinio di Calabresi, anche se materialmente eseguito da un gruppo di anar­chici o terroristi di sini­stra, na­sce dal clima creato al centro e che si serve proprio di questi perso­naggi come comparse gratuite”. E Calabresi – in accordo o su ordine del suo capo Antonino Allegra e del questore AIitto Bonanno – ha protetto con discrezione personaggi di rilievo di quello che verrà poi definito “il partito del golpe”. Dopo la sua morte si scoprirà in un suo cassetto un appunto (cfr. Gianni Fla­mini Il partito del golpe) sulla Lega Italia Unita e su Fumagalli. Marcello Bergama­schi, stretto collaboratore di Fumagalli, confesserà in carcere nel giugno del 1974: “Fumagalli mostrava, dal modo con cui ne parlava, di sa­perne molto sulla morte di Calabresi. Per la verità non scese mai in particolari, ma da come ne parlava compresi che doveva saperne molto. Diceva tra l’altro che era stata una cosa ben fatta e che nessuno avrebbe mai saputo chi era stato ad ucciderlo. Tuttavia dal modo come lo di­ceva sembrava che lui lo sapesse benis­simo” (atti inchiesta G. I. di Brescia Giovanni Simeoni).

  2. MILANO – Tra il dicembre del 1970 e il settembre del 1972 – e cioè prima e dopo l’omicidio del commissario Luigi Calabresi – il servizio segreto militare dell’epoca, il Sid, disponeva di un affidabilissimo spione nel vertice milanese di Lotta Continua. “Como”, questo era il suo nome in codice, partecipava a riunioni su argomenti molto delicati, conosceva leader come Giorgio Pietrostefani e Mauro Rostagno e tutti i dirigenti delle lotte operaie alla Pirelli-Bicocca dove, con tutta probabilità, lavorava. Un informatore preciso, un osservatore attento, capace di cogliere e segnalare tempestivamente l’intera attività della sinistra extraparlamentare: dai primi vagiti delle Brigate rosse alle azioni dei Comitati unitari di base. Un solo tema, curiosamente, è ignorato nelle ventisette informative che il Sismi ha inviato alla magistratura milanese, proprio quello più importante: l’omicidio Calabresi.
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    se “Como” fosse stato individuato e interrogato tempestivamente, avrebbe potuto dire cose molto interessanti. Oggi ne dice solo una, ma chiara e allarmante: sull’omicidio Calabresi sono state svolte inchieste scollegate, settoriali, e “a tesi”: i nuovi elementi che contraddicevano la pista più “alla moda” in un certo momento storico, venivano – e a quanto pare vengono ancora – accantonati. E’ questa, del resto, la ricetta classica che ha prodotto la pozione velenosa dei “misteri d’Italia”.

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    Un’omissione dolosa o un errore? Chissà. Che la produzione di un infiltrato nel vertice di Lotta Continua potesse avere qualche importanza nelle indagini sull’omicidio Calabresi, non poteva sfuggire né al Sismi né ai carabinieri. Se non altro perché il generale Umberto Bonaventura, l’uomo che nel 1988 raccolse la confessione di Leonardo Marino, entrò nella “Pastrengo” nel marzo del 1972, quando “Como” era ancora in attività. Ed era al Sismi di Roma quando le carte dell’informatore furono inviate alla magistratura. C’è una sola persona che può chiarire il mistero, ed è lo stesso “Como”. “Ma – dice il sostituto Meroni – quella per l’omicidio Calabresi non è una indagine su un reato di strage, perciò il Sismi, se chiedessi di rivelare l’identità della fonte, potrebbe validamente opporre il segreto di Stato”. Forse val la pena di tentare comunque: l’ opposizione del segreto di Stato sull’identità della fonte “Como” sarebbe già una risposta.

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