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RB Casting dà il Benvenuto a Maria Sole Tognazzi

Intervista esclusiva a Maria Sole Tognazzi

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La passione per la macchina da presa, nata accanto al maestro Ferzan Ozpetek. Le regie che parlano di lei, dal ricordo tenero del padre Ugo al suo stato di quarantenne single ma felice. Tra rimpianti e sorrisi, la regista si racconta e svela i retroscena di “Viaggio sola”, il nuovo film con Margherita Buy (nelle sale a marzo). “Descrivo le scelte di una donna adulta che non è madre e non è moglie, eppure è soddisfatta della sua vita”. Perché se il figlio o l’uomo giusto non arrivano non ci si può sentire donne a metà…

Quando la contatto per l’intervista la prima parola che mi viene in mente è “entusiasmo”. Entusiasmo per il film che ha appena finito di girare (“Viaggio sola”, con Margherita Buy, Stefano Accorsi, Alessia Barela, Fabrizia Sacchi e Gianmarco Tognazzi) e che arriverà nelle sale a marzo con Rai Cinema e Bianca Film, entusiasmo per il mestiere di regista, entusiasmo per le piccole gioie del quotidiano (anche se la vita le ha lasciato qualche spina nel cuore, prima fra tutte la perdita a diciott’anni del padre). E ancora, entusiasmo per la lunga chiacchierata che stiamo per fare. Maria Sole Tognazzi, quarta figlia dell’indimenticabile Ugo, ha scelto di stare dietro la macchina da presa in una famiglia di attori e il suo mondo, tra finzione e realtà vissuta, lo racconta svelando le urgenze che l’hanno portata a scrivere i suoi film. Il lutto prematuro, il ricordo tenero e pieno d’ammirazione per il papà, la ricerca difficile (o impossibile?) dell’uomo giusto, la voglia di maternità, la raggiunta consapevolezza che una donna sola può essere felice.

Tre lungometraggi in sette anni: “Passato prossimo”, “L’uomo che ama” e il documentario “Ritratto di mio padre” (ma prima una lunga gavetta come assistente e aiuto alla regia), fino all’ultima pellicola con protagonista una signora “sola” che ha superato i quaranta. “E’ la storia di un’ispettrice di hotel di lusso, un mestiere insolito scoperto in fase di sceneggiatura con Francesca Marciano e Ivan Cotroneo. Parla delle scelte di una donna adulta che non è madre e non è moglie, eppure è soddisfatta della sua vita. In tanti la guardano con sospetto, succede ancora oggi in tutto il mondo. E poi succede che le donne di quarant’anni anni, che non hanno figli, sono disposte a fare di tutto pur di averne. Mi interessava comprenderne i motivi…senza giudicare. Soprattutto, una donna che si trova a vivere senza un nucleo familiare, come si sente? Che cosa pensa quando qualcuno la giudica?”.

Come mai ha scelto di raccontare un mestiere così fuori dal comune?
L’idea è venuta a Francesca, che voleva scrivere una serie di racconti sull’argomento. L’ispettore viene spedito negli alberghi di tutto il mondo in incognita: li mette sottosopra per due giorni e solo dopo aver valutato tutto, dal ristorante alla Spa alla camera da letto, si rivela al direttore. Se l’albergo non supera il punteggio richiesto perde la quinta stella. L’identità nascosta mi sembrava divertente e anche cinematografica.

Dove avete girato?
Le riprese sono andate avanti per sette settimane, in sei alberghi diversi. In Italia siamo stati in due posti: in Toscana al Fonteverde e in Puglia al Borgo Egnazia. Poi siamo andati in Svizzera, a Parigi, Berlino, Marrakech e Shangai. E’ stato divertente, anche se il poco tempo a disposizione non ci ha permesso di godere i luoghi.

Chi è il personaggio di Accorsi?
Si chiama Andrea, è un caro amico di Irene (il personaggio della Buy, ndr) che vive a Roma. Ogni tanto la protagonista torna alla vita vera, che non c’entra nulla con il lusso dei grandi alberghi. Nel film ci sono altre due storie: quella di Accorsi e quella di una sorella più giovane, sposata con due bambine e interpretata dalla Sacchi. Andrea ha una breve relazione con una quarantenne, che rimane incinta e sceglie di portare avanti la gravidanza da sola. Per lei potrebbe essere l’ultima possibilità: decide di tenersi il figlio, a prescindere dal rapporto con il padre.

E’ un tema che, oggi, riguarda tante donne.
L’orologio biologico è lo stesso di sempre, ma l’età si è spostata in avanti: i figli si fanno a quarant’anni con molta tranquillità, ho tante amiche che sono rimaste incinte da adulte o ancora non sono madri. Poi ci sono donne che hanno un forte istinto materno e alla soglia degli anta vanno nel panico. Anch’io ho quarant’anni e se domani dovessi innamorarmi, potrei pensare a una gravidanza: se non accadrà, non mi sentirò una donna a metà e non farò un figlio con il primo che capita o con l’inseminazione artificiale…Però non giudico chi ha questa necessità!

La sua protagonista è felice?
Volevo raccontare una donna sola e felice. Una donna che non fosse in carriera o egoista, perché nel cinema le donne senza figli e senza compagno sono sempre problematiche. Irene ha un lavoro stressante: al Four Season di Londra ho seguito un ispettore vero per due giorni, mi ha spiegato che gli uomini sono in maggioranza perché è una vita da nomadi, e le donne che hanno impegni familiari non ce la fanno. La mia protagonista ama il suo lavoro: sa che non durerà per sempre e ha i suoi momenti di incertezza, ma in fondo le va bene così. Negli alberghi le chiedono spesso se viaggia sola e si stupiscono…poi una mattina si trova a colazione con un amico e il cameriere si mostra felice per lei. Ecco, il cliché che la donna non può stare da sola mi fa diventare matta!

Parliamo del documentario su suo padre. Com’è nato?
A vent’anni dalla scomparsa di papà, il produttore Matteo Rovere voleva realizzare un contributo e me ne ha proposto la regia. All’inizio non me la sentivo, poi ho capito che poteva essere un’opportunità importante. Ho lavorato più di un anno, utilizzando i materiali del repertorio Rai ma soprattutto i super 8 che ho trovato in casa, e ho costruito il documentario come fosse un film. E’ interessante perché c’è un cambio continuo di formati: dai super 8 agli spezzoni dei film, dal materiale televisivo ai primi video con le telecamere degli anni ’80, fino alle interviste in digitale a Bertolucci, Monicelli e altri. Al di là della figura di Ugo, si vedono cent’anni di storia d’Italia.

L’ha aiutata a conoscerlo meglio?
L’ho vissuto poco, ma non l’ho conosciuto poco. Se hai la fortuna di avere un padre così, hai anche tante persone che lo ricordano di continuo. Realizzare il film è stato come parlargli di nuovo: c’era sempre qualcuno che gli faceva una domanda che io non avevo avuto il tempo di fargli. Alla fine mi sono resa conto di conoscerlo benissimo, l’esperienza mi ha solo confermato tanti aspetti della sua personalità. Come la trasgressione, l’amore per il rischio, il mettersi sempre in gioco, la libertà.

Tognazzi era libero ma anche infedele. E spesso le donne cercano, nell’eventuale compagno, qualcosa del padre…
Senza dubbio la libertà mi affascina, ma di mio padre mi piaceva soprattutto il suo essersi fatto da solo. Insomma, non amo la borghesia…Mi piacciono gli uomini curiosi, Ugo era così: veniva dal nulla e alla fine della vita era diventato onnivoro, una qualità difficile da trovare. L’infedeltà invece non la gradisco, quando sono stata tradita mi sono ammalata…anche se poi la capisco, perché mio padre era infedele. E però aveva grande rispetto per mia madre, non si è mai presentato per qualcosa che non era. Ecco, da un uomo potrei accettare tutto ma non l’inganno.

Perché, a differenza dei suoi fratelli, ha scelto di stare dietro la macchina da presa?
Non ho mai pensato di fare l’attrice. Sono tendenzialmente introversa e non amo i riflettori puntati. Quando, da bambina, arrivavano i fotografi io scappavo sempre! La passione per la macchina da presa, invece, è nata con il tempo. Quando è morto mio padre mi sono ritrovata da sola e avevo bisogno di lavorare: conoscevo le persone del cinema, ho chiesto a loro. Per dieci anni ho fatto l’assistente alla regia e l’aiuto, il desiderio di fare qualcosa di mio è venuto naturale. Al contrario di mio fratello Gianmarco, che voleva fare l’attore da quando aveva 5 anni.

Se non fosse diventata una regista?
Mia madre (l’attrice Franca Bettoja, ndr) viene da una famiglia alberghiera, gli Hotel Bettoja, che sono a Roma dall’Ottocento. Mio zio, che amavo infinitamente, si occupava di questi alberghi: io li frequentavo quando erano vivi i miei nonni, entravo dalle porte di servizio, con “Viaggio sola” tutto è tornato fuori. Se non avessi lavorato nel cinema, forse avrei continuato l’attività.

Chi sono stati i suoi maestri?
Bernardo Bertolucci è il regista italiano che amo di più, ma sul set ho avuto tanti maestri. Ferzan Ozpetek è uno di loro. L’ho conosciuto che avevo diciott’anni e ne dimostravo tredici: tutti mi guardavano storto, si chiedevano chi fosse la mocciosa che stava lì a rompere (ride, ndr). Per me era un momento difficile, dopo la morte di mio padre la mia famiglia aveva subito un cambiamento radicale da tanti punti di vista. E Ferzan è stato straordinario, un maestro di cinema e di vita.

Un vizio di cui non può fare a meno?
Mangiare bene! Degna figlia di Tognazzi.

La sua paura più grande?
La morte delle persone che amo. Ne ho vissute tante, ho iniziato giovane. Quando muore un amico e ti dicono che “tanto era grande”, mi arrabbio sempre. C’è forse un’età per morire? Un amico è sempre un amico…Ogni volta soffro moltissimo.

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