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RB Casting dà il Benvenuto a Giulio Manfredonia

Dagli esordi con Luigi Comencini ai suoi ultimi film “Si può fare”, “Qualunquemente”, “Tutto tutto niente niente” e “La nostra terra”. Ripercorriamo la carriera del regista e sceneggiatore Giulio Manfredonia. La nostra intervista.

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Giulio Manfredonia
regista e sceneggiatore, nato a Roma

www.rbcasting.com/site/giuliomanfredonia.rb

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Un cinema che congiunge comicità e riflessione, umorismo arguto e spassoso con un afflato di speranza. Parliamo dello stile di Giulio Manfredonia. Nonostante sia figlio di un ingegnere e di una casalinga, in famiglia respira aria di cinema grazie allo zio Luigi Comencini. Convinto che il cinema sia un mestiere che non si può improvvisare, ha fatto l’aiuto regista per più di un decennio prima di passare alla regia. Esordisce nel 1998 con il corto “Tanti Auguri”, grazie al quale vince il Nastro d’Argento e il premio al Miglior Cortometraggio al Festival di Annecy. Nel 2001 ha diretto “Se fossi in te”, il suo primo lungometraggio. Di commedia si tratta anche il successivo “È già ieri” (2004), remake dell’americano “Ricomincio da capo” con Bill Murray, qui sostituito da Antonio Albanese. Nel 2008 dirige “Si può fare” (2008) con Claudio Bisio e poi ancora con Albanese il film campione di incassi “Qualunquemente” (2011), seguito nel 2013 da “Tutto tutto niente niente”. Il suo ultimo film è “La nostra terra” (2014), che racconta la storia di un gruppo di persone insolite che lotta per difendere la propria terra, appunto, dallo strapotere delle infiltrazioni mafiose, con un cast che comprende tra gli altri Stefano AccorsiSergio Rubini e Maria Rosaria Russo.

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La nostra intervista a Giulio Manfredonia

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Come stai in questo momento, sei in vacanza o al lavoro?
In realtà oggi sono al mare ma sto lavorando ad un nuovo progetto per la televisione: una serie in 6 episodi per Rai 1 prodotta da Lux Vide, con Vanessa Incontrada e Lino Guanciale. Il nucleo narrativo ruota attorno ad una donna con due figli, le sue vicende e l’esigenza che ha di trovare un lavoro. Cominceremo a girare a settembre e le riprese termineranno a gennaio 2016. Immagino sarà trasmesso nella stagione successiva della Rai.

Ripercorrendo la tua carriera dalla cosa più recente a quella più retrodatata, come è nata l’idea de “La nostra terra”?
E’ un’intuizione venutami insieme al produttore del film Lionello Cerri. “La nostra terra” è il fratello minore di “Si può fare”, che a sua volta è nato dalla mia passione e dello sceneggiatore dell’epoca, Fabio Bonifacci, di raccontare un’Italia poco raccontata, quella del volontariato, del fare, di un’Italia che si occupa degli ultimi. Con “Si può fare” raccontammo le vicende di una cooperativa che, in seguito alla legge Basaglia, si occupava di integrare gli ex degenti dei manicomi. In “La nostra terra”, la storia è quella più recente delle cooperative nate per recuperare i beni che lo Stato ha sottratto alla malavita organizzata. E così con l’aiuto di Libera, un’Associazione che raccoglie tutte queste cooperative, abbiamo cominciato a studiare il fenomeno (anche abbastanza importante dal punto di vista numerico) e ci è venuta la voglia di raccontare, sempre in una chiave di commedia, un’altra storia italiana positiva, nel nostro cinema che spesso mette in luce, giustamente, anche i difetti del nostro Paese. Abbiamo così raccontato una storia di persone che, anche un po’ casualmente, si sono trovate a vivere una grande avventura e a combattere come Sansone contro Golia, da piccoletti contro delle grosse forze.

E direi che l’intento poi è riuscito perfettamente.
Sono la persona meno adatta per giudicare. Il film ha avuto uno strano destino, una vita molto breve e travagliata in sala, per varie ragioni: per il periodo in cui è uscito, per come è stato distribuito o perché non ha incontrato immediatamente un pubblico e, come sappiamo, il cinema italiano se non incontra subito un muro importante di pubblico non ha poi modo di guadagnarselo nel tempo. Si gioca tutto subito in due giorni e poi il destino di un film è più o meno segnato. E quindi, in questo senso conta molto anche come viene promosso, quanto viene comunicato e via dicendo. Poi, invece, nel suo destino internazionale, il film ha avuto una sorte migliore. E qui sarebbe doveroso aprire una lunga digressione sul momento che sta vivendo il nostro cinema. “La nostra terra” fa parte di quei piccoli film che ogni tanto riesco a fare tra mille fatiche. Fare piccoli film in Italia è diventato molto difficile, però quando ci riesco sono molto contento, perché ci permettono di raccontare delle storie che ci stanno a cuore.

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Parlando appunto di “Si può fare”, che di successi e riconoscimenti ne ha ottenuti tanti, qual è il ricordo più caro legato a quel periodo?
“Si può fare” è un film che ha tanti tanti bei ricordi, è stato uno di quei progetti molto difficili da fare. Ha avuto una gestazione lunghissima e per 5 anni non siamo riusciti a trovare un bando produttivo adatto. Nella sfortuna, però, abbiamo avuto la fortuna di trovare un produttore (Angelo Rizzoli, ndr) che ci ha creduto, che aveva molta passione ma stava vivendo una parabola un po’ discendente della sua vita produttiva. Era un vero produttore che ha amato molto il cinema e si è battuto con noi per riuscire a realizzarlo, mentre Rai Cinema non ha voluto farlo. E’ un film che in qualche modo è riuscito a mettere la testa fuori, pur avendo avuto un risultato di botteghino discreto ma non straordinario. E’ un film che ha ricevuto tanti riconoscimenti, anche internazionali. Il ricordo più bello di “Si può fare” è legato proprio a tutta la sua preparazione. Questi 5 anni di travaglio ci hanno permesso di creare un gruppo di attori che ha lavorato a lungo sul film prima di farlo e questa è stata la sua fortuna; gli attori erano tutti molto pronti quando siamo partiti.

Ti capita mai di rivedere i tuoi film e con quale spirito? Ci sono cose che cambieresti se tornassi indietro?
A me piace rivedere i miei film dopo un po’. Secondo me, per mesi, ma forse anche per un anno, i film bisogna lasciarli andare, anche perché li hai talmente masticati che non riesci più a vederli. Le reazioni di rivederli a distanza di tempo sono diverse: io tendo a vederne spesso i difetti ma ci sono volte in cui resto stupito da cose che non ricordavo e che mi arrivano forti. “Si può fare” è uno di quei film che a distanza di anni mi ha sorpreso anche per la sua fortuna. I film nascono in un certo modo ma poi escono fuori anche indipendentemente dalla volontà dell’autore, per casualità, per incontri.  E “Si può fare” è stato un film fortunato.

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Come sono nati, invece, l’incontro e la collaborazione con Antonio Albanese?
E’ una storia antica. Quando facevo ancora l’aiuto regista, e parliamo più o meno del 1995, a un certo punto approdai in Cecchi Gori e loro cercavano qualcuno che avesse dimestichezza con Milano. Io ci avevo vissuto e la conoscevo abbastanza bene. Ad Antonio Albanese, che era al suo primo film da regista, era stato suggerito il nome di Gianni Arduini, che all’epoca era il più bravo aiuto regista in Italia ma forse anche in Europa. Antonio era intimorito da questa figura matura e molto esperta, cercava un ragazzo come lui che potesse dargli una mano. Quindi cominciai in prova per qualche settimana, poi ci trovammo bene e allora lavorai con lui come aiuto regista in “Uomo d’acqua dolce” e anche nel successivo “La fame e la sete”. Dopo ci siamo frequentati e siamo diventati molto amici. Ad un certo punto gli proposi, e lui accettò, di fare un mio film, “È già ieri”. Negli anni questa collaborazione è continuata e quando si è trovato di fronte a “Qualunquemente”, gli è sembrato troppo impegnativo fare sia il regista che l’attore; fu abbastanza naturale propormi di aiutarlo a fare quel film e io lo feci con lo stesso spirito con cui avevo fatto i precedenti.

Quali sono state le difficoltà che hai incontrato nel corso della tua carriera? Prima mi parlavi di “Si può fare” e della sua lunga gestazione…
Io penso che in questo momento, in Italia, un regista della mia età che riesce ad avere una carriera continua è una persona molto fortunata perché ho visto tanti registi dal grande talento e della mia generazione perdersi, perdere la fiducia. E’ un mestiere molto casuale perché non esiste una vera industria, non sempre i talenti vengono individuati e i mestieri del cinema sono spesso legati a fatti contingenti. Il travaglio di fare un film oggi in Italia è spesso talmente enorme che si rischia che non vengano alla luce dei film che invece andrebbero veramente fatti. Le fatiche sono quasi sempre quelle di trovare un sistema e di fare delle storie che spesso non sono quelle che il mercato si aspetta. Si realizzano film che sembrano di mercato e poi non lo sono. E’ tutto molto opinabile. Quindi, ogni volta che uno parte con un nuovo progetto, la difficoltà è quella di sentirsi solo perché raramente hai interlocutori produttivi all’altezza, rischiando di arrivare ad un risultato al di sotto delle aspettative. E poi c’è la difficoltà di affrontare il mercato della distribuzione, sapendo che o ti prendi una grande major ma con il rischio di essere distribuito distrattamente perché non sei il primo cavallo di punta della scuderia, oppure finisci nelle mani di una piccola distribuzione e i numeri parlano chiaro. Non c’è la possibilità di fare un film che arrivi ad un pubblico minimamente significativo se non hai alle spalle una distribuzione che miri ai grandi numeri.

Qual è il film che ti sta più a cuore?
Sono tutti figli, ma se proprio ne devo menzionare uno, forse perché è stato quello più complicato da fare, o forse perché il più ambizioso, quello che poi ha avuto più riscontro è “Si può fare”. Sono, al contempo, molto legato a “La nostra terra” perché parla di un tema molto importante e lo fa con un tono gentile che mi piace e in cui mi riconosco. E’ un film che avrebbe meritato un riconoscimento più ampio.

Qual è il primo ricordo che hai sul set o quando hai avuto l’illuminazione di voler diventare regista?
Il mio primo set risale a 44 anni fa. Mio padre lavorara con mio zio Luigi (Comencini, ndr). Papà è un ingegnere che si è appassionato di meccanica e che ad un certo punto è stato coinvolto da mio zio nella costruzione del burattino di Pinocchio per la televisione. A 3 anni mio padre mi portò a vedere la pancia della balena, a conoscere Pinocchio, Geppetto. Il mio incontro col cinema corrisponde con il mio incontro con Pinocchio e ho avuto la fortuna di conoscere di persona tutti i personaggi.

C’è qualcuno che senti di dover ringraziare?
Tanti, davvero tanti. Se uno fa questo mestiere e non sa capire che deve ringraziare tanta gente, allora non ci ha capito molto. Ovviamente ringrazio più di tutti Comencini che è il mio maestro, l’uomo che mi ha guidato. Recentemente devo dire grazie a mia moglie (l’attrice Maria Rosaria Russo, ndr), che mi ha affiancato in tante occasioni. Sposare un’attrice vuol dire anche aprirsi ad un altro lato del mestiere, vuol dire capire tante altre cose e sicuramente nella mia crescita c’è questo incontro. Da Comencini a mia moglie ci sono tanti “grazie” nel mezzo.

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