Intervista all’attore Francesco Formichetti, il vincitore di “Ciak, si Roma! Nove giorni di grandi interpretazioni 2012” ci racconta i suoi progetti
Lo vedremo a breve nel nuovo film di Ermanno Olmi “Torneranno i prati”, al cinema dal 6 novembre, come co-protagonista nel ruolo del Capitano accanto a Claudio Santamaria, ma ha la bocca cucita a riguardo. Sappiamo soltanto che lavorare con Olmi è un’esperienza intensa, che lo ha cambiato professionalmente e personalmente. “E’ un vero uomo per lo spessore morale, culturale e conoscitivo. Dovrebbero esserci più persone al mondo come lui”.
Francesco Formichetti ci parla dei suoi progetti, del film “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti, in uscita il prossimo aprile, e ricorda la bella esperienza di “Ciak, si Roma! Nove giorni di grandi interpretazioni 2012”: “In quell’occasione è successo qualcosa di unico”.
E proprio in questi giorni è in corso al Festival Internazionale del Film di Roma 2014 la quinta edizione di “Ciak, si Roma! Nove giorni di grandi interpretazioni” con Daniele Luchetti, Carlo Verdone, Lina Wertmüller e Roberto Bigherati.
Il 6 novembre esce “Torneranno i prati” di Ermanno Olmi. Cosa puoi anticiparmi sul tuo ruolo?
Non posso anticiparti niente perché abbiamo la bocca cucita e dobbiamo mantenere il massimo riserbo a riguardo. Il mio personaggio è fondamentale per alcuni punti del film che scoprirete. Dovrei prendere spunto per ruoli come questo, per la forza, la determinazione e il coraggio. Grazie ad Ermanno Olmi ho totalmente abbandonato il metodo recitativo per abbracciare un nuovo approccio fatto di istinto. Io, Alessandro Sperduti e Andrea Di Maria non avremmo mai potuto immedesimarci così tanto sentendo quel dolore, quelle paure e quelli stati d’animo se non abbracciando il suo metodo di lavorazione. E’ stato un bel viaggio introspettivo.
Come ti sei trovato a lavorare con lui?
Sicuramente, mi sono sentito molto fortunato. E’ un vero uomo per lo spessore morale, culturale e conoscitivo. Dovrebbero esserci più persone al mondo come lui. Si avverte subito, in sua presenza, il carisma e il fascino che emana, è indubbiamente un maestro poetico. E’ estremamente diretto nella comunicazione.
Puoi descrivermi il suo metodo?
Mi piace da morire. Consiste nel totale abbandono e ti costringe a vivere le sensazioni sul momento. Non ci sono stati giorni di prove, ma semplicemente poco prima di girare, sul set, abbiamo fatto un briefing e subito ci siamo calati in scene decisamente complesse. Un giorno, c’è stata una scena per me importante che non riuscivo a girare e stavo andando in tilt. Lui mi ha fatto entrare in un mood diverso, consigliandomi di scuotarmi e approcciarmi alla scena con praticità.
Prima di girare, ero teso, carico di aspettative e di paure, faceva freddo e lui, con la sua forza, mi ha detto che sentiva che stavo recitando e che non ero vero. Fa in modo di portarti all’esasperazione e all’abbandono e come in un balletto a due, è lui che ti conduce e ti fa fare la scena. Ed ogni dettaglio è ingrandito.
Qual è l’esperienza, ad oggi, che consideri a te più cara?
Indubbiamente “Nove giorni di grandi interpretazioni”. E’ stata la goccia che ha ingrandito l’onda. Ho sempre avuto tanta dedizione e ci ho sempre messo anima in corpo in quello che faccio e nei ruoli impostati, ma in quell’occasione è successo qualcosa di unico. Ho preso a cuore i malati di SLA e volevo dargli voce. Spesso ci dimentichiamo dell’importanza e dell’attaccamento alla vita, forse perché noi la diamo per scontato. Oggi questo attaccamento non è così alto e forte.
Come ti sei preparato?
Avevo poco tempo, e avevo tanta paura che mi è servita per andare giù. Ho studiato la patologia, dopo aver scritto il monologo ho contattato centri e ospedali perché volevo incontrarli e osservarli ma non è stato possibile. Così ho visto numerosi video e ho osservato gli sguardi, la deglutizione, tutti i dettagli che potessero essere utili per me. Ci ho messo una settimana per fare tutto. Avevo tanta tensione addosso. Credo che il trucco sia fare tutto con passione e grande determinazione. (Clicca qui e guarda il suo monologo del 2012).
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Aspettiamo l’uscita del film e poi vedremo, è sempre una scommessa. Inoltre ad aprile 2015 esce “Lo chiamavano Jeeg Robot”, opera prima di Gabriele Mainetti con Claudio Santamaria. È un film decisamente completo ed innovativo, fatto di azione, risate e tante sorprese che riguardano proprio i protagonisti. Ti dico soltanto che il nome del mio personaggio è Sperma. Ci sono tanti effetti speciali che hanno richiesto un’accurata post produzione ed è tutta una scommessa. Con Santamaria ci siamo ritrovati insieme sul set e si è creata una bella amicizia che ancora rimane.
Qual è il tuo sogno più grande? Sei sereno oggi?
Mica tanto… Sono felice per il mio lavoro e mi sento molto fortunato, però la situazione in Italia non è così florida, come fai a stare tranquillo. Cerchiamo di essere ottimisti. Per quanto riguarda i miei sogni, potrei dirti che mi piacerebbe lavorare con Paolo Sorrentino, Giuseppe Tornatore, Paolo Virzì o Gabriele Salvatores ma prenderò quello che arriverà. Voglio vivere di questo mestiere e voglio regalare emozioni al pubblico, ad amici e parenti. Mi piacerebbe inoltre tornare a teatro. Infine, per quanto riguarda la sfera privata, spero di trovare la presona giusta, attualmente sono single.