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Maria Pia Calzone, da Gomorra al teatro: “con Bestialità ritorno alle origini”

Intervista a Maria Pia Calzone, protagonista al cinema, in tv e a teatro, dove attualmente è impegnata in “Bestialità”, in scena a Roma

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di Francesca Lisa

Dopo il successo mondiale di “Gomorra – La serie”, Maria Pia Calzone torna al teatro con “Bestialità” di Dario D’Ambrosi, primo esperimento di drive-in theatre in Italia, parte integrante del Festival del Teatro Occipitale, in scena il 24 e 25 Novembre in una location inusuale all’incrocio tra viale Gottardo e viale Nevoso, a Roma. Ne parliamo con l’attrice campana che, a fianco di Francesco Montanari, nello spettacolo veste i panni della protagonista.

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Parliamo di “Bestialità”, spettacolo sperimentale in cui sei protagonista con Francesco Montanari.
Il progetto è stato ideato e scritto da Dario D’Ambrosi del Teatro Patologico e messo in scena per la prima volta a New York, città in cui Dario è socio de “La MaMa” (teatro Off-Off-Broadway, ndr), dove per l’occasione è stato bloccato il ponte che collega l’omonimo Stato a quello del New Jersey, secondo una procedura volutamente invasiva. Negli Stati Uniti lo spettacolo ha guadagnato critiche molto positive, una sua tutte quella del New York Times, che gli ha dedicato mezza pagina di giornale. Dopodiché abbiamo deciso di esportare anche in Italia questa modalità completamente innovativa di fare teatro.

In cosa consiste la tipologia di teatro “drive-in“?
In riferimento a “Bestialità”, si parte dal domandarsi cosa possa succedere quando due persone che non si conoscono (i protagonisti) si danno un appuntamento in un posto casuale, in genere un’area di sosta, ritrovandosi chiusi in un’automobile. Il pubblico arriva quindi sulla scena, che è effettivamente un parcheggio, con location che cambiano in base alla serata, e rimane ad osservarli quasi spiandoli, un po’ come due pesci in un acquario, senza capire inizialmente cosa stia succedendo. Cosa fondamentale, gli spettatori sono anch’essi seduti nelle auto, collegate a quella “di scena” mediante un impianto audio basato su interfoni e cuffie, il che amplifica ancora di più la sensazione di spiare le voci, i respiri e le parole scambiate dai due sconosciuti.

Che peso ha avuto la proposta di uno spettacolo così alternativo per un’attrice fortemente legata al teatro come te?
Ho sempre nutrito un’enorme stima di Dario e del suo lavoro nell’ambito del Teatro Patologico, per cui ho accettato subito, buttandomi a capofitto in questo progetto. Inoltre la presenza di Francesco Montanari, che è prima di tutto una persona perbene, oltre che un vero professionista, ha fatto sì che la condivisione di uno stesso metodo equivalesse ad affrontare da subito il lavoro scenico con una persona che abbracciava il mio stesso punto di vista, alternando momenti di serietà ad altri di puro divertimento.

A proposito di Francesco, potreste essere definiti “i due morti esemplari” della serialità Sky, visti il suo ruolo in “Romanzo Criminale” e il tuo in “Gomorra”.
In effetti è così: io e Francesco non ci eravamo mai incontrati prima di questo spettacolo, mentre lui conosceva Dario, con il quale aveva già collaborato in “Romanzo Criminale”.  Una volta iniziate le prove per lo spettacolo, è stato come se ci conoscessimo da sempre, data l’assoluta naturalezza nel lavorare insieme e la sua bravura, un connubio che ha reso possibile lo scambio di esperienze e l’arricchimento reciproco.

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Inevitabile a questo punto parlare di “Gomorra”: quante volte è già morta Donna Imma nelle tv internazionali?
Direi almeno un centinaio, considerando i messaggi di cordoglio che periodicamente mi arrivano sui social network non appena la prima stagione termina in uno dei Paesi in cui la serie è stata distribuita. Scherzi a parte, sentire tutto il calore del pubblico, non solo nazionale, rispetto a una serie come “Gomorra”, mi fa letteralmente impazzire di gioia, perché sento che è un affetto regalato in modo disinteressato. In particolare, è piacevole appurare come gli spettatori mi considerino una brava persona a prescindere dal personaggio, riuscendo dunque a cogliere frammenti di Maria Pia al di là di Imma. Alla fine credo che tutto questo sia possibile solo se al termine del percorso si riesce nel proprio compito di attore, che è quello di coinvolgere emotivamente chi sta dall’altra parte dello schermo.

Su quali corde hai dovuto far leva per calarti nei panni di Imma Savastano, moglie di uno dei più influenti boss della camorra?
Credo che ognuno, sin dalla nascita, si porti dentro una serie di elementi che, a seconda del contesto in cui si cresce o delle esperienze da cui si viene influenzati, finiscono col prevalere su altri. Quando ho lavorato a questo personaggio ho scavato nella mia coscienza per tirare fuori quel magma emotivo rimasto in qualche modo sopito. Chiedendomi cosa mi differenziasse maggiormente da Imma, ho trovato il vero elemento di scarto nella cosiddetta cultura del sospetto, tanto sconosciuta a me quanto pervasiva di tutto l’agire di questa camorrista. Immedesimarsi nella paranoia che scandisce le vite degli appartenenti a un’associazione mafiosa, portandoli a diffidare incessantemente di tutto e tutti, è stata la vera sfida per me, che di natura tendo a fidarmi sempre del prossimo.

Hai mai avvertito il pericolo di una qualche fascinazione per uno dei suoi tanti lati oscuri?
L’elemento più accattivante di quel personaggio credo consista nell’ebbrezza legata alla detenzione e all’esercizio del potere. Il fatto che nel mio caso sia una donna a poterlo sperimentare rende tutto ancora più interessante. Mi viene da pensare a Meryl Streep ne “Il diavolo veste Prada” la quale, a proposito delle fonti di ispirazione per il suo ruolo, spiegò come il riferimento principale non fossero state le donne, bensì gli uomini d’affari. Questo a dimostrazione di come nell’immaginario comune l’esercizio del potere sia un concetto associato quasi sempre all’universo maschile. Nel caso di Donna Imma, ho potuto indossare una maschera che, soprattutto in alcuni momenti (uno su tutti quello in cui lei si ritrova al timone del clan dopo l’arresto del marito), mi ha provocato non pochi dissidi interiori, anche alla luce della mia totale incapacità di dare ordini nella vita reale.

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Facendo un passo indietro, nella tua biografia si legge di una laurea in Lettere e un diploma al Centro Sperimentale, oltre a una lunghissima lista di lavori al cinema, in tv e a teatro. Quando hai capito di voler fare l’attrice?
Mi piacerebbe poter dire che c’è stato un momento preciso in cui ho compreso che avrei voluto fare questo mestiere. In realtà non è così, semplicemente perché l’ho sempre saputo e tutto quello che è arrivato dopo non è stato casuale, ma fortemente voluto. Ho iniziato a fare teatro a Napoli già negli anni del liceo: dei miei genitori, mia madre non ha mai gradito la mia scelta, mentre mio padre mi ha sempre sostenuta. Agli inizi tenni un seminario teatrale con Lello Arena, al quale chiesi se pensasse fosse il caso di intraprendere la strada della recitazione. Lui, con estrema onestà, mi rispose che il talento c’era, ma per continuare avrei dovuto fare delle scelte radicali, preparandomi a grandi sacrifici. Così feci il provino al Centro Sperimentale e venni presa. Mi trasferii a Roma e da lì ebbe inizio il mio cammino.

Come e quanto si cambia nel passaggio dallo schermo al palcoscenico?
Per rispondere mi viene in mente Tato Russo nel periodo in cui interpretavo Ofelia in un suo “Amleto”: quasi ogni sera mi richiamava nel suo camerino, pregandomi di non piangere per davvero in scena. Questo per spiegare come in genere tendo ad avere un approccio più cinematografico al teatro. Nel passaggio dall’uno all’altro mezzo è chiaro che ciò che cambia è essenzialmente il contatto con il pubblico, entità imprescindibile in scena, grande assente durante le riprese. Alla fine per me si tratta di due modi di esprimersi completamente opposti: nel teatro prendo ciò che ho dentro e lo invio all’esterno; al cinema o in tv richiamo tutto quello che mi sta intorno e lo proietto dentro, restituendolo attraverso lo sguardo e la gestualità amplificati dallo schermo.

C’è un ruolo che non accetteresti mai?
Non saprei. Quello che posso dire è che quanto più un personaggio è disgustoso o eticamente scorretto, tanto più costituisce motivo di interesse per un attore, che avrà da scavare nel marcio, nelle pieghe più oscure del suo animo, affrontando problematiche spesso inesplorate.

Il tuo più grande motivo d’orgoglio.
Attualmente ciò che mi rende orgogliosa è la risposta positiva del pubblico al mio lavoro. Essendo di natura una persona insicura, tendo sempre a incolparmi di ciò che non funziona. E invece sapere che le persone che mi seguono amano ciò che faccio è un grandissimo onore, capace di ripagarmi degli sforzi fatti sin qui. Al di là di questo, l’orgoglio della mia vita resta mio figlio: essere madre è la mia vera fonte di sicurezza, un elemento su cui non nutrirò mai alcun dubbio.

Qualche anticipazione su quello che farai?
Ho una serie di progetti su cui sto riflettendo, per cui a breve deciderò se sarà il caso di farli bollire ancora in pentola o trasformarli in concreti impegni lavorativi.

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