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“Il villaggio di cartone”, la “vera” cristianità secondo Olmi

La navata di una Chiesa si spoglia di tutti i suoi simboli sacri: i quadri antichi, le statue dei santi, i candelabri. Poi un lungo braccio meccanico si solleva verso la cuspide sopra l’altare, stacca il grande Crocifisso e lo cala a terra come uno sconfitto. Allo stesso modo si sente il vecchio Prete, che senza più dimora né fedeli si chiede: “che farò qui da solo?”. Le prime scene de “Il villaggio di cartone”, ultimo film di Ermanno Olmi già passato alla 68ma Mostra del Cinema di Venezia e ora nelle sale in 80 copie con 01, ci portano in un’atmosfera desolata, quasi mistica, che vede in una Chiesa sconsacrata il simbolo di una fede vuota, senza più ragione d’essere. Eppure solo adesso, al cospetto delle pareti nude, il religioso avverte una sacralità nuova che prima non aveva mai percepito. A fargliela scoprire un manipolo di disperati: immigrati clandestini sopravvissuti al naufragio di una carretta che, per sfuggire alle Forze dell’Ordine, si rifugiano tra quelle quattro mura.

Sempre meno portatore del “cattolicesimo istituzionalizzato” e sempre più “cristiano” nel senso evangelico del termine, l’ottantenne Olmi non smette di stupire. Questa volta lo fa con una storia che non solo critica la decadenza del mondo occidentale, ma punta il dito contro tutti i cattolici (e la Chiesa), colpevoli di aver perso il senso vero della cristianità. Finalmente libero dagli orpelli di una religione vetusta, il Prete (Michael Lonsdale) si apre all’altro, allo straniero, e così facendo riscopre la carità più autentica. “Ho fatto il prete per fare del bene – dice nel bel mezzo di una crisi – ma per fare il bene non serve la fede. Il bene è più della fede”. Al posto dei simboli sacri arrivano i rifugi improvvisati (le scatole di cartone) e l’umanità bisognosa, in una Chiesa che diventa vera Casa di Dio. Gli immigrati, giustamente, non sono tutti santi: c’è la ragazza madre che ha appena partorito, la donna con il coltello in tasca, il ragazzo pieno di speranze e l’aspirante terrorista pronto a farsi esplodere. Ogni rappresentante di questa umanità, compresi il Prete demotivato, il sacrestano falso (Rutger Hauer) e l’irremovibile portavoce della legge (Alessandro Haber), è comunque libero di decidere tra il Bene e il Male.

In un film dove ogni personaggio è un simbolo, ogni dialogo un pensiero dell’autore, non si può non lodare la profondità di un contenuto oggi più che mai attuale. Qualcuno ha lamentato lo stile retorico e antiquato, con immagini così cariche di simbolismi da sembrare irreali: tutto vero e però il messaggio finale è così alto e necessario, che le imperfezioni passano facilmente in secondo piano. Un esempio su tutti è l’immagine iniziale del Crocifisso rimosso dalla Chiesa, spiegata dal regista con queste parole: “è troppo facile e ambiguo affermare il valore di un simbolo, il simbolo deve rinviare alla realtà di carne per avere valore. Al Cristo il vecchio Prete dice di non riuscire a provare pietà per lui, perché è troppo lontano. Ecco, invece di inginocchiarci davanti ai simulacri di cartapesta, dovremmo inginocchiarci davanti alle persone vere, gli immigrati che soffrono. E’ solo questo il modo di lodare Dio”.

“Il villaggio di cartone” è una toccante parabola umanistica e Olmi si riconferma un grande maestro di storie e contenuti: al di là degli errori di fattura, ancora una volta ci ha saputo ricordare che il cinema è sì intrattenimento ma anche (e nel suo caso soprattutto) portatore di una missione morale e civile.

Alcuni commenti della critica:

“Iper Olmi che con la costanza della ragione offre un apologo non realistico ma necessario intriso di cinema, molto teatro e anche un poco di tv, nella claustrofobia di un ambiente in cui i sentimenti vivono con la nuova sacralità di chi non teme il passo dalla teoria all’azione. Voto 8”.
Maurizio Porro, Corriere della Sera

“Un linguaggio che dà spazio ai singoli, studiandone con realistica finezza le psicologie, ma riserva passaggi quasi lirici ai cori. (…) Le immagini, sia nelle tante facce in primo piano, sia, appunto, nei cori in campo lungo, si affidano sempre a composizioni figurative a dir poco preziose, pur rigorosamente tenendo presente il reale ed evitando di cedere anche un solo istante nella calligrafia”.
Gian Luigi Rondi, Il Tempo

“Il villaggio di cartone è un apologo un po’ oracolare, molto alla Olmi. (…)  Peccato che il film, ribollente di sentimenti e meditazioni, ma poetizzante nello stile e alla lunga declamatorio, non colga il bersaglio: troppa musica, troppa letteratura, troppa carne al fuoco”.
Michele Anselmi, Il Riformista

“Tra immagini caravaggesche, potere alla Parola (al limite del didascalico), teatralità e affabulazione umanista, Olmi abbatte le Chiese ed esalta la fede: non è un volemose bene perché tra i migranti c’è spazio per la suggestione terroristica. Ma rimane una lezione: non la vita come il cinema, ma il cinema come la vita”.
Federico Pontiggia, il Fatto Quotidiano

“Dalle luci agli ambienti, guardando il film sembra di essere a teatro, con la chiesa come palcoscenico e la sagrestia come dietro le quinte. Non riesce a lasciare il segno Rutger Hauer, che torna a lavorare con Ermanno Olmi 23 anni dopo La leggenda del santo bevitore, in un ruolo poco incisivo e approssimativo. Nel complesso il regista non riesce a far emergere il valore della privazione delle cose superficiali, in quanto manca una risposta radicale che indichi una strada chiara per cui valga la pena vivere e sacrificare la propria vita”.
Paolo Sinopoli, BestMovie.it

“Il messaggio umanitario lanciato da Ermanno Olmi oggi è più che mai attuale e coraggioso, ma il contenuto ‘importante’ della sua opera viene soffocato da uno stile retorico e talvolta ridondante tipico dell’ultima fase della sua filmografia (…) al di là delle imperfezioni, non possiamo non sottolineare l’importanza del suo ritorno alla regia e la coerenza nello sforzo di restituire alla settima arte il suo valore morale ed educativo”.
Valentina D’Amico, Movieplayer.it

 

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