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“Cesare deve morire”: quando l’arte arriva dietro le sbarre

Video conferenza stampa con Paolo e Vittorio Taviani, Nanni Moretti, Grazia Volpi, Salvatore Striano, Fabio Rizzuto, Fabio Cavalli.

Dopo aver riportato in Italia, a distanza di 21 anni, l’Orso d’Oro di Berlino per il miglior film, “Cesare deve morire” dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani arriva nelle sale cinematografiche distribuito dalla Sacher di Nanni Moretti in circa 40 copie.

Il docu-film racconta la messa in scena del “Giulio Cesare” di Shakespeare realizzata dal regista teatrale Fabio Cavalli con degli attori d’eccezione: i detenuti del carcere romano di Rebibbia. Un progetto che Cavalli porta avanti da tempo quello di fare teatro in prigione e che arriva sul grande schermo dopo il passaparola di un’amica dei Taviani, che segnalò ai due fratelli le forti emozioni provate durante uno di quegli spettacoli in carcere. La scelta del “Giulio Cesare” come testo è strettamente legata alla condizione degli attori/detenuti: delitti, tradimenti, potere, amicizia e libertà sono i temi in cui non possono che ritrovare se stessi.

Per i fratelli Taviani “Cesare deve morire” segna anche un debutto: a più di 80 anni, infatti, i registi hanno abbandonato la pellicola per girare in digitale (usando il bianco e nero), cosa che non solo ha abbattuto i costi, come raccontano, ma gli ha permesso di lavorare come non mai con un’enormità di materiale a disposizione che ha comportato un montaggio più lungo del solito. Girato nelle celle, nei cunicoli dell’ora d’aria e nei bracci della sezione di Rebibbia, il film ha come protagonisti dei veri detenuti tranne due: Salvatore Striano, che uscito di prigione fa l’attore (l’abbiamo già visto in “Gomorra” e “Napoli Napoli Napoli”) e Stratone. Entrambi sono due ex galeotti che hanno scontato la loro pena in carcere e che, dopo aver scoperto il teatro, hanno intrapreso la carriera di attori.

Nel film dei Taviani vita e finzione si mescolano in modo quasi pirandelliano, ricercando la verità nella finzione. I versi del Bardo si fanno parola per i detenuti grazie, soprattutto, alla scelta di far recitare ognuno di loro nel proprio dialetto. E’ questo uno dei doni del film: rinnovare Shakespeare, facendolo rivivere in una maniera diversa, con una nuova forza e dimostrando, ancora una volta, l’immortalità delle sue opere e dei sentimenti che esse suscitano nell’animo umano. A parte qualche forzatura nel legare il personaggio teatrale alla persona con un effetto un po’ didascalico e superfluo, “Cesare deve morire” è un film toccante, intenso, che scava con poesia nella miserabilità e negli abissi dell’anima, restituendoci una cruda realtà verso la quale non si può non provare anche compassione. E poi c’è il dubbio, la presa di coscienza sociale verso il carcere e la sua supposta azione riformatrice da un lato e l’azione salvifica dell’arte e della cultura dall’altro che si riassume nella battuta finale del film detta (e scritta) da Cosimo Rega: “Da quando ho scoperto l’arte questa cella mi sembra una prigione”.

CESARE DEVE MORIRE conferenza stampa con Taviani e Moretti - WWW.RBCASTING.COM

Alcuni commenti della critica:

“La loro grande intuizione è stata di non trasferire meccanicamente su film uno spettacolo già esistente, bensì di mettere in scena le prove di un testo nuovo allestito non su un palcoscenico, ma nei luoghi dove i detenuti vivono normalmente (…) L’altra grande idea, naturalmente, è il Giulio Cesare”.
Alberto Crespi, L’Unità 

“Ottimo il sintetico taglio drammaturgico del meraviglioso testo, felice l’idea (di Cavalli) di far parlare gli attori nei loro dialetti; indovinata squadra di interpreti, la cui vita spericolata alimenta di lacrime e sangue il gioco recitativo; emozione colma di quando si toccano corde umane e profonde”.
Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa 

“Cesare deve morire è costellato di immagini potenti. specie quando la macchina da presa scruta le grate del carcer, o distaccata lo osserva dall’esterno, come se Rebibbia fosse un’astronave atterrata per caso sulla terra”.
El. Ba., Il Fatto Quotidiano 

“I fratelli Taviani accendono i riflettori sui detenuti di Rebibbia, interpreti di un adattamento del Giulio Cesare di Shakespeare che mette in luce la loro umanità e il loro vissuto. Un esperimento di docu-fiction in cui i dialetti italiani si allacciano alle parole del Bardo per raccontare una moltitudine di storie in bianco e nero”.
Fabio Fusco, Movieplayer.it

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