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RB Casting dà il Benvenuto a Giorgio Diritti

Intervista esclusiva a Giorgio Diritti

Rappresentato dall’agente Moira Mazzantini (TNA)
Ufficio Stampa Vera Usai

www.rbcasting.com/site/giorgiodiritti.rb

Chiacchierando con lui ci si rende conto di quanto lavoro ci vuole per realizzare un film. Perché Giorgio Diritti non è solo l’autore che l’anno scorso ha conquistato critica e pubblico con il suo bellissimo “L’uomo che verrà”, è anche il montatore, lo sceneggiatore e il produttore delle sue creature, l’instancabile artigiano che con pazienza cura ogni tassello dell’opera d’arte fino a quando non ha la sensazione che sia perfetta.

Classe 1959, bolognese con genitori di Rovigno d’Istria, Diritti comincia il suo percorso di artista nel mondo della musica. Come assistente fonico alla Fonoprint collabora con Vasco Rossi, Lucio Dalla e Gianni Morandi. Un giorno, allo studio di registrazione, si presenta l’aiuto regista di Pupi Avati. “Se ti va di provare con il cinema – dice – alla prossima produzione ti chiamo”. Dopo due comparse in un paio di film, arriva l’occasione concreta: un lavoro nella produzione di “Noi tre”, regia di Pupi Avati. “Da lì nacque un percorso che durò alcuni anni – racconta – feci prima il segretario, poi l’ispettore di produzione, quindi il direttore”.

Ma a 27 anni la produzione gli sta stretta: “a un certo punto mi resi conto che, se fossi andato troppo avanti, sarebbe stato difficile ripropormi in chiave artistica. Per questo mi fermai e mi avvicinai alla realtà di ‘Ipotesi Cinema’. Qui, chi aveva ambizioni autoriali, con il coordinamento di Ermanno Olmi, poteva cominciare a confrontarsi con la regia”. Comincia così una lunga attività di documentarista e cortometrista (con incursioni nel mondo televisivo), grazie alla quale Diritti impara anche i segreti del montaggio. Nel 2003, con Simone Bachini crea Aranciafilm. “I lavori che volevo fare io non li voleva produrre nessuno. Così ho trovato un socio coraggioso e mi sono messo in proprio”.

Il suo primo lungometraggio, “Il vento fa il suo giro” (2005), racconta il difficile rapporto tra una comunità delle valli occitane del Piemonte (il soggetto è di Fredo Valla che viene proprio da quelle parti) e un forestiero sognatore. “Si tratta di paesini quasi disabitati che si trovano al confine con la Francia – spiega il regista – gli abitanti sono per la maggior parte anziani chiusi nelle loro tradizioni. Per alcuni di loro, l’arrivo del forestiero è un’occasione per far rinascere il luogo, altri lo guardano con diffidenza e ostilità. Lui è un diverso, è un francese colto, e soprattutto è un vincente con capacità imprenditoriali. Queste sue caratteristiche, però, scatenano una serie di dinamiche che raccontano quanto sia difficile, in genere, accettare le persone diverse”. Il film partecipa a più di 60 festival e diventa un “caso nazionale”, restando in programmazione al Cinema Mexico di Milano per più di un anno e mezzo.

Nel 2009 esce il secondo film, “L’uomo che verrà”. L’obiettivo è di partire dal particolare, la strage di Marzabotto vista dai contadini del Monte Sole, per raccontare i temi universali della vita e della morte. Diritti ci riesce benissimo e lo fa sposando, dall’inizio alla fine, lo sguardo di quegli umili che con la guerra non c’entrano niente, ma che, inspiegabilmente, sono costretti a sopportarne le atroci conseguenze. La pellicola viene presentata nella selezione ufficiale del Festival di Roma 2009, dove vince il Gran Premio della Giuria Marc’Aurelio d’Argento, il Premio Marc’Aurelio d’Oro del Pubblico e il Premio “La meglio gioventù”. L’anno dopo si aggiudica i riconoscimenti come Miglior film, Miglior produttore e Miglior suono di presa diretta ai David 2010, e i premi come Miglior produttore, Miglior scenografia e Miglior sonoro agli ultimi Nastri d’Argento. Recentemente, il lungometraggio è arrivato in finale per la candidatura all’Oscar, insieme a “La prima cosa bella” di Paolo Virzì e a “Io sono l’amore” di Luca Guadagnino.

Per l’intervista, partiamo da “Il vento fa il suo giro”. La  produzione è stata una specie di piccolo miracolo. Mi racconta com’è andata?
Sicuramente è stata un’esperienza singolare. Finita la sceneggiatura, abbiamo chiesto un paio di finanziamenti, anche al Ministero, ma nessuno sembrava interessato al progetto. Le strade erano due: buttare tutto in un cassetto o tentare un modo nuovo di produrre. In quel periodo avevo appena costituito l’Aranciafilm con Bachini: lui si trasferì nel cuneese e iniziò una serie di relazioni. Una delle fortune è stato il coinvolgimento della troupe in produzione: il cast era giovane e la voglia di fare ha rappresentato un grande incentivo. Un piccolo finanziamento è arrivato dalla Regione Piemonte, poi si è aggiunto il produttore Mario Chemello, ma l’aiuto più importante è venuto dalle piccole realtà del territorio. Quando siamo partiti avevamo un budget che bastava a coprire solo la prima parte del film: se siamo riusciti a finirlo lo dobbiamo soprattutto al grande interesse che il progetto ha suscitato nelle popolazioni del luogo.

Mi sembra di capire che l’autoproduzione è stata una scelta necessaria. Ma se lei potesse scegliere tra fare il regista e il produttore e fare solo il regista?
La produzione è stata una necessità ma anche un modo per seguire entrambi i miei film. Certo sarebbe più semplice dedicarsi solo alla regia: tuttavia, quando sei nella fase operativa, la possibilità di decidere ti permette di fare delle scelte più ponderate. Direi che, per il tipo di cinema che faccio io, i due aspetti sono necessariamente correlati.

Entrambi i film sono in dialetto. Da dove viene questa scelta?
Nasce da una necessità narrativa e non da una volontà a priori. Nelle valli occitane si parla questo idioma, il forestiero si esprime in francese e l’italiano diventa una specie di lingua cerniera. In pratica, è stato un modo per rendere ancora più evidente la particolarità della comunità. Per “L’uomo che verrà”, ho pensato al dialetto emiliano in fase di scrittura: poi, durante la preparazione, mi sono accorto che era diventato indispensabile. I costumi, gli ambienti e i volti avevano una tale carica di realismo che l’uso dell’italiano avrebbe stonato.

“L’uomo che verrà” ha riscosso un grande successo di critica e pubblico. Qual è la sua forza?
La dimensione di grande realismo che attraversa una pagina della storia, che è la storia italiana, ma soprattutto è la storia di una famiglia. Nella vita di Martina (la bravissima Greta Zuccheri Montanari, ndr), si rispecchia anche l’esistenza di persone che vengono da ogni parte del mondo, da tutti quei luoghi in cui la quotidianità è stata invasa dalla violenza della guerra. E ancor di più, la forza del film è nello sguardo della piccola protagonista che ci presenta la realtà degli adulti in senso critico, con lo stupore che mette in evidenza quanto, in fondo, il mondo degli adulti non abbia nulla di coerente.

Prima di scegliere la piccola Greta, ha visto centinaia di bambine. Che cosa l’ha colpita di lei?
Il volto e la bellezza antica. E poi lo sguardo malinconico, e quella sua capacità di renderlo quasi adulto.

Come ha reagito Greta alle scene più crude?
Ha capito. I bambini riescono a comprendere se si tratta di finzione. Naturalmente, le scene più crude non le ha viste: il cinema ti permette di giocare con i primi piani e il contro campo, mentre Greta ha partecipato con l’immaginazione della sua visione e non attraverso l’esperienza diretta.

Si aspettava tutto questo successo?
Dire di sì sarebbe presuntuoso, ma dire di no sarebbe errato. Sicuramente, quando lavoro ci metto tutte le energie che ho, cercando di incontrare il consenso del pubblico. Poi, per le sensazioni che questo film mi dava, sono stato particolarmente contento.

Il film andrà anche in America?
Proprio in questi giorni stiamo chiudendo il contratto con la distribuzione americana. Abbiamo aspettato che si conoscessero le decisioni sull’Oscar, perché alcune proposte dipendevano da un’eventuale candidatura.

A proposito di Oscar. Che cosa ne pensa della scelta di Virzì?
Penso che chi ha scelto ha valutato fosse meglio proporre il film di Virzì. Non discuto le decisioni altrui e non mi piace cercare le polemiche. Certo ho un po’ di rammarico, anche perché, attraverso questo film, l’Italia sarebbe diventata l’ambasciatrice di un forte messaggio di pace nel mondo.

Prima di prendere la strada della regia, ha fatto il montatore e lo sceneggiatore per tanti anni. Quanto ha contato tutta questa gavetta?
Tanto. Non sarei mai arrivato al primo lungometraggio senza le esperienze passate. I primi passi nel mondo del cinema li ho fatti nella produzione, cosa che mi ha permesso di capire meccanismi, dinamiche ed esigenze di un film.

Nei primi documentari che ha realizzato come regista ha cominciato anche a lavorare al montaggio…
Si, perché a un certo punto (e questo è anche merito dell’insegnamento di Olmi), ti rendi conto che per girare bene un film devi conoscere anche i meccanismi narrativi del montaggio. L’esperienza nella produzione e nel montaggio sono alcuni dei tanti tasselli che mi hanno permesso non solo di curare i miei film da vicino, ma anche, soprattutto per il primo lungometraggio, di ottimizzare i costi.

Quanto ha contato l’insegnamento dei suoi cari nel percorso che poi ha scelto?
I mie genitori hanno avuto un peso soprattutto perché mi hanno trasmesso certi valori della vita, tra cui anche l’amore per la natura. Forse qualche volta mi hanno visto come un mattacchione, ma non mi hanno mai ostacolato nelle decisioni. Ora è rimasto solo mio padre, e ovviamente è molto orgoglioso di quello che ho fatto.

I suoi genitori sono profughi d’Istria?
Si, e credo che la concezione della guerra come elemento che sconvolge la vita delle persone mi sia rimasta dentro. Non di rado mia madre manifestava un senso di rabbia nei confronti di un destino che l’aveva allontanata dai suoi luoghi e dagli affetti più cari. Forse, parte dei sentimenti che ho messo in “L’uomo che verrà”, arrivano proprio da questo senso di provvisorietà.

Chi sono i suoi maestri?
Nella vita gli insegnamenti giusti possono venire anche da qualcuno che incontri al mercato. In ambito cinematografico, per il percorso formativo che ho avuto, i miei maestri sono stati Avati e Olmi. In senso artistico, però, faccio fatica a identificarne uno solo: sono affascinato da Kieslowski, Chaplin, Ken Loach, De Sica, Rossellini, Fellini, ma anche dal teatro di Checov. Per l’analisi del rapporto tra uomo e Natura, trovo interessante il lavoro di Piavoli e Olmi. In generale, ho sempre amato il cinema che racconta la povera gente toccando, nello stesso tempo, i temi sociali e universali.

In questo momento sta lavorando a un nuovo film?
Ho in mente due progetti. Uno sulla spiritualità, l’altro sui giovani. Con Fredo Valla, abbiamo intervistato una serie di persone credenti e non credenti, per cercare di capire che cos’è la spiritualità e cosa smuove. Ma ci troviamo ancora in una fase embrionale.

Che rapporto ha con la spiritualità?
Ho avuto una formazione cattolica, sono sicuramente credente anche se resta l’incertezza. In questo credo di essere simile a tanta altra gente: ci sono dei momenti della vita in cui credo di più, altri in cui mi sento vuoto.

E per il film sui giovani, che cos’ha in mente?
Anche questo progetto si trova ancora nel magma creativo. Sicuramente ho voglia di capire meglio la realtà dei giovani d’oggi: troppo spesso si danno delle definizioni facili come “bamboccioni”, mentre incontro ragazzi che vivono nella rassegnazione e nella frustrazione perché non riescono nemmeno a pagarsi una stanza. Il progetto di vita è diventato uno degli aspetti più strozzati dalla società contemporanea, al punto che chi vuole fare un figlio deve farsi i conti in tasca e il più delle volte è costretto a rimandare. Per non parlare del lavoro: oggi sembra impossibile fare ciò che si vuole, piuttosto bisogna adeguarsi a quel che passa il convento.

Colpa di chi?
Abbiamo una classe politica che guarda troppo ai propri interessi e non sa tutelare il futuro. Ecco, nel film vorrei mettere il concetto che le persone adulte se ne devono andare a casa. Non capisco questa scelta di alzare l’età pensionabile: è una delle più grandi fesserie che il Governo poteva fare dal punto di vista economico e sociale. Per me bisogna investire in una società che permetta ai giovani di realizzarsi e di fare dei figli. Perché, se si continua a mantenere in piedi un sistema che lascia lavorare gli ottantenni, non si arriva da nessuna parte.

Lei ha figli?
Ho un ragazzo di 21 anni.

Preoccupato per il suo futuro?
Lui è un bellissimo precario…

L’idea di un lavoro sui giovani viene anche dalla sua esperienza?
Non proprio. Mi è venuta piuttosto parlando con tutti quei ragazzi che hanno lavorato con me in questi anni o dai figli degli amici. Il senso di frustrazione dei giovani è qualcosa che si respira per strada…

Che cosa pensa dei tagli agli aiuti governativi?
E’ una scelta troppo drastica. Lo Stato dovrebbe avere l’orgoglio di sostenere i progetti che hanno un valore sociale importante per l’Italia, e limitare i finanziamenti alle opere prime e seconde può precludere questa possibilità. Per esempio, di fronte a una pellicola come “L’uomo che verrà”, è chiaro che un produttore può preferire qualcosa di meno rischioso, magari una commedia. Mentre è proprio in questi casi, quando il film è prezioso per la memoria storica o per un contenuto morale, che gli aiuti statali dovrebbero arrivare.

Tanti giovani scelgono di fuggire all’estero…
Forse questi ragazzi, prima di andare via, dovevano andare in piazza a urlare. Ecco, la colpa delle generazioni di oggi è quella di avere meno determinazione nel difendere le proprie posizioni. Manca un senso di appartenenza a un bene comune: ognuno si preoccupa di sé stesso, senza pensare che le conseguenze prima o poi ricadranno sulla sua testa.

Ha un sogno?
Nella vita ho avuto già la fortuna di realizzare ciò che mi piace. Un piccolo sogno è forse quello di assistere a un cambiamento generale, dove il bene comune diventa prioritario rispetto al bene del singolo. Mi piace pensare che la possibilità per ogni persona di lavorare, essere serena e avere cura dei propri familiari sia un valore possibile e normale. E il mio cinema, in fondo, è legato anche a questo sogno.

Un difetto e un pregio.
Certe volte mi faccio prendere dall’ansia o sono un po’ pressante con i miei collaboratori. In compenso cerco sempre di ascoltare molto gli altri.

Un vizio di cui non può fare a meno?
Fumo i Krumme junior, dei piccoli sigari storti che vengono dalla Svizzera. Prima li importavano anche in Italia, adesso me li faccio portare dagli amici che passano di là.

La sua paura più grande?
Essere costretto a interrompere un percorso. Ho paura che qualcosa possa bloccare questa mia voglia un po’ utopistica di migliorare il mondo.

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