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RB Casting dà il Benvenuto a Tani Canevari

Intervista esclusiva a Tani Canevari

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Lo incontro in un caffè a ridosso di Villa Ada, nei pressi del quartiere romano dei Parioli. Ha appena finito di girare una scena di “Manuale d’amore 3”, l’ultima commedia di Giovanni Veronesi dove ritroveremo, tra gli altri, Robert De Niro, Monica Bellucci, Carlo Verdone e Michele Placido. Mi aspetta in tuta blu e scarpe da ginnastica. Appena ci sediamo noto che, dietro i grandi occhi verdi, c’è un certo imbarazzo per le domande in arrivo. Lui, che di solito guarda il mondo da un teleobiettivo, che con le luci e le ombre fa belli gli altri, adesso si trova in qualche modo dalla parte opposta. E non ci è abituato. Con lo sguardo indagatore mi chiede (e si chiede) cosa accidenti ci facciamo a quel tavolino, quasi come se volesse avvertirmi che mi sono sbagliata, perché lui non è la persona che cercavo. Un minuto prima di iniziare ho quasi paura che scappi via. Poi accendo il registratore, si comincia a parlare di cinema e il ghiaccio si scioglie.

Tani Canevari, romano, classe 1967, direttore della fotografia. Nel cinema lavora da una ventina d’anni: prima è assistente operatore, poi operatore Steadycam, infine è “cinematographer” (come ama definirsi). Nel 1992 incontra Veronesi sul set di “Per amore solo per amore”: comincia così una lunga e fortunata collaborazione che dura ancora oggi. Tra i film di cui Tani ha curato la fotografia “Streghe verso nord” (2001), “Manuale d’amore” (2005, nomination al David di Donatello) e “Manuale d’amore 2” (2006), “Italians” (2009), “Genitori & figli: agitare bene prima dell’uso” (2010). In mezzo la collaborazione con Francesco Nuti per “Caruso, Zero in condotta” (2000), con Ricky Tognazzi per “Il papa buono” (2003), “Io no” (2003) e “Il padre e lo straniero” (2010), con Neri Parenti per “Natale a Miami” (2005) e “Natale in crociera”(2007), con Lamberto Bava per il thriller “Ghost son” (2007), con Claudio Fragasso per “Concorso di colpa” (2005). “Manuale d’amore 3” arriverà nelle sale a febbraio. Intanto, finite le riprese, Tani volerà a Malta per girare le ultime tre puntate di una serie di gialli per Canale 5 (anche le prime tre, dirette da Bava, sono state realizzate con la sua fotografia).

Cominciamo dai primi passi. Com’è nata la passione per il cinema?
Da piccolo mi piaceva molto la fotografia: lo sviluppo, la camera oscura, la magia delle immagini. Alle elementari ce la insegnava un maestro. Tutti lo snobbavano, io invece passavo i pomeriggi nel suo laboratorio, con la puzza degli acidi e tutto il resto.

C’è uno scatto che ricorda con particolare emozione?
Mi sono rimasti gli odori, l’ambiente, quell’alchimia che nasce quando ti trovi in un posto buio con una luce rossa, hai dei fogli bianchi e ci proietti sopra un’immagine. Poi metti questi fogli negli acidi, li muovi e comincia ad apparire la fotografia.

Quando si è concretizzata questa passione?
A 14 anni mi sono iscritto al CINETV (l’Istituto di Stato per la cinematografia e la Tv “Roberto Rossellini”, ndr) per studiare fotografia. Ero sicuro di ciò che avrei fatto: poi ho visto il palco, le luci e ne sono rimasto affascinato. Al secondo anno ho scelto l’indirizzo “operatore di ripresa”.

Quindi ha cominciato a lavorare come operatore Steadycam.
Come assistente operatore. Lavoravo con un direttore della fotografia che si chiamava Pasqualino De Santis  (premio Oscar per “Romeo e Giulietta” di Franco Zeffirelli, ndr), lui sosteneva che l’operatore moderno doveva lavorare con la steadycam. Così, un po’ alla volta, ci mandò tutti a fare dei corsi per imparare ad usarla.

La prima esperienza importante?
“Parenti serpenti” con Mario Monicelli. Il film lo girammo a Sulmona. Lui, piccoletto, ti acchiappava da dietro e ti diceva: andiamo, ti porto io. Andavamo in giro con una macchina alta alta e ci divertivamo come pazzi.

Il suo primo film come direttore della fotografia?
Dieci anni fa con Massimo Ceccherini, si chiamava “Faccia di Picasso”. Mi sembrava un buon esordio, lui è abbastanza matto e così mi sono detto: “ma dai proviamo”. Fu un’esperienza emozionante, anche se avevo già fatto qualcosa. Come operatore lavoravo con tanti direttori della fotografia: li riempivo di domande e loro mi vedevano interessato. Così ogni tanto capitava una sostituzione e magari, negli ultimi giorni, mi lasciavano anche finire le riprese.

Dopo Ceccherini collabora con Francesco Nuti.
L’ho sempre considerato un ottimo regista, per questo pensavo che sarei riuscito a collaborare con lui solo dopo tanti anni. Invece l’opportunità arrivò subito: panavision, macchine importanti e…una grande emozione!

Nel 1992 inizia il fortunato sodalizio con Veronesi. Com’è nata la collaborazione?
Ci siamo conosciuti a Cinecittà. Lui doveva girare “Per amore solo per amore” e io fui chiamato a fare l’operatore Steadycam. Da allora in poi ho fatto tutti i suoi film: chiunque fosse il direttore della fotografia lui aveva già il suo operatore di fiducia perché, mi diceva, per lui ero come la penna per lo scrittore. In seguito, quando cominciai a fare fotografia, diventai anche il suo direttore della fotografia.

Com’è Veronesi sul set?
Un bell’uomo…(ride). Dopo diciotto anni insieme non abbiamo bisogno di tante parole. Spesso gli altri non capiscono e si lamentano del nostro silenzio: in realtà noi ci siamo già detti tutto senza dirci niente. Del resto certi sodalizi funzionano proprio perché non c’è bisogno di spiegarsi.

Tra un film di Veronesi e l’altro, anche tre lungometraggi con Ricky Tognazzi. Che cosa mi racconta di lui?
Con Ricky ho lavorato diverse volte come operatore di macchina, per poi fare parecchie pubblicità e tre film come direttore della fotografia. E’ una persona che stimo molto, in più mi piace il rapporto che ha con Simona Izzo, questo completarsi l’un l’altra sul set e nella vita privata. Sul lavoro lui è più tecnico, lei è un po’ più tra le nuvole. Epperò è capace di darti delle indicazioni forti.

Chi è il direttore della fotografia secondo lei?
Gli americani lo chiamano “cinematographer” e per me è molto più esplicativo. In italiano sarebbe “cinematografaro”, cioè colui che fa la cinematografia, trasferendo sulla pellicola tutto ciò che il regista ha in testa.

Vittorio Storaro ha detto di non essersi mai sentito a suo agio con il termine “direttore della fotografia”, ma di preferire la definizione di “autore della fotografia cinematografica”, ovvero libero ingegno creatore della foto-grafia, cioè dello scrivere con la luce. E’ d’accordo?
Si, anche se non è abbastanza perché si può scrivere anche con le ombre. E poi non si parla di fotografia solo come illuminazione di un set, ma anche come spazio che riesci a inquadrare, riempendo il fotogramma delle cose che ti servono e alleggerendolo di quelle che non ti servono.

Quant’è importante la formazione per un direttore della fotografia?
E’ importante sia la formazione tecnica che quella culturale. Ogni volta che affronti un’immagine devi ricostruire qualche cosa che può essere nel tuo inconscio e nel tuo bagaglio culturale. Quindi più immagini di riferimento hai, maggiore sarà il tuo vantaggio.

Se non avesse fatto il direttore della fotografia?
Forse sarei diventato un critico d’arte o anche un mercante d’arte. Ma non un critico cinematografico, sono troppo rompiscatole per i miei gusti!

Come sarà la fotografia di “Manuale d’amore 3”?
Il film ha tre episodi, ognuno con un suo stile. Quindi ci sono tre fotografie diverse: ognuna deve raccontare un tipo di storia in modo da farti dimenticare quella che è venuta prima. Insomma, si chiude una porta e se ne apre un’altra. E tutto cambia.

Com’è stato lavorare con De Niro?
Qualcosa di incredibile. Mettevo l’occhio nel buco e dicevo: “non ci credo, guarda chi c’è qua dentro. Ci assomiglia ma non può essere lui! E invece era proprio lui”. In più è una persona meravigliosa, tranquilla, sempre puntuale. Tanta gente dovrebbe imparare da lui.

Insomma non si comporta come certe attricette nostrane che amano fare i capricci…
Assolutamente no. E comunque io faccio sempre in modo che le attrici vengano al meglio, al punto che sono loro a dirmi “grazie di avermi fatto bella”.

C’è un’attrice che l’ha colpita più delle altre?
Se parliamo di questo ultimo film, ho un bel ricordo di Monica Bellucci. Mi ringraziava spesso per averla fatta bella anche se io non ho fatto molto: lei è bella di suo!

Un film che lè è rimasto nel cuore?
Non saprei scegliere. Tutti i lavori mi hanno lasciato delle belle sensazioni, anche quelli in cui ho dovuto cercare immagini più crude.

Per esempio?
“Come tu mi vuoi” di Volfango De Biasi ha richiesto una differenzazione delle immagini piuttosto netta. Perché c’è lei (Cristiana Capotondi, ndr) che da brutta diventa bella, quindi nella prima parte abbiamo utilizzato grandangoli, inquadrature deformanti e una luce più cruda. Mentre, nella seconda parte, l’immagine si è fatta più curata.

Un regista con cui le piacerebbe collaborare?
Nanni Moretti. Con lui ho lavorato per “La stanza del figlio” come operatore Steadycam. Mi ha lasciato un ottimo ricordo e poi mi piacciono i suoi film.

Quanto è importante il rapporto con il regista?
E’ il 50 per cento del lavoro. Ti dà uno stimolo per tutto ciò che devi fare: se il rapporto non è buono la voglia di girare il film comincia a scemare.

Il film che le manca?
Mi piacerebbe girare qualcosa di diverso dalle commedie. Magari un film d’autore, anche a basso costo.

Un film di cui avrebbe voluto curare la fotografia?
L’ultimo che ho amato molto è stato “The Reader” di Stephen Daldry. C’era una fotografia meravigliosa.

Quali sono i problemi principali che le capita di incontrare sul set?
I problemi si incontrano soprattutto quando si gira in esterno: si lavora con tante condizioni atmosferiche diverse e la luce che cambia repentinamente, per cui mantenere una certa continuità non è facile.

La sua sfida più grande?
I figli, la casa, la famiglia.

Se un giorno scegliessero il cinema?
I miei non erano affatto contenti della mia scelta (mio padre era ingegnere spaziale, niente di più lontano dal cinema!). Se vorranno lavorare in questo mondo oppure no non sarò certo io ad ostacolarli o a obbligarli. L’importante è che facciano qualcosa che amano e per cui si sentono portati.

Chi sono stati i suoi maestri?
Ho due maestri italiani con cui ho lavorato e che stimo tanto. Uno è Pasqualino De Santis, l’altro è Fabio Cianchetti.

La scelta che le ha cambiato la vita?
Non diventare ingegnere. Prendere personalmente posizione e accettare il rischio che tutto vada male.

Il sogno nel cassetto?
Che questo sogno non finisca mai.

Un difetto e un pregio.
Il difetto è che sono molto testardo, nel senso che sono convinto di avere sempre ragione. Il pregio è esattamente lo stesso: forse proprio perché sono testardo riesco ad andare avanti!

Con Veronesi ha mai discusso pesantemente, magari a causa della sua testardaggine?
No, perché poi parlando ci si convince.

Un vizio di cui non può fare a meno?
Mangiare e bere. In genere tutti i vizi di pancia.

La sua paura più grande?
Non saprei. Non credo di averne. La sua qual è?

 

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