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RB Casting dà il Benvenuto a Roberta Torre

Intervista esclusiva a Roberta Torre

www.rbcasting.com/site/robertatorre.rb

“Libertà” è la parola che più di ogni altra potrebbe raccontarla.  Libertà di pensare, agire, sperimentare, sbagliare. Pubblico e critica la lodano perché, viaggiando controcorrente, riesce sempre a stupire. Non importa se sceglie il musical-sceneggiata, il dramma romantico, il noir visionario o la commedia agro-dolce: comunque vada i suoi film sono una scoperta. E’ capace di sorprendere persino quando parla di sé: “più che una regista mi sento un’alchimista – ammette – un’apprendista stregone che sperimenta. Mi diverto a mescolare ingredienti diversi per creare una magia”. E in effetti le sue pellicole assomigliano a una pozione magica: una base di cronaca nera, una buona dose di grottesco, una parte di melodramma, un pizzico di romanticismo.

Roberta Torre, regista, sceneggiatrice e produttrice, è considerata la mamma di veri e propri cult del cinema italiano. Milanese quasi doc (ha un nonno di Vieste), dopo la laurea in filosofia si specializza in regia alla Civica Scuola di Cinema e Televisione, oltre a diplomarsi in recitazione e drammaturgia alla Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi”. A Palermo, dove si trasferisce dal ’90 al 2002, gira i primi cortometraggi: tra gli altri: “Angelesse”, “Spioni”, “La vita a volo d’Angelo”, “Hanna Schygulla” e “Palermo Bandita, documento-reportage sui ragazzi di Brancaccio”.

Il primo lungometraggio è “Tano da morire” (1997), musical favola in chiave grottesca sul boss di quartiere Tano Guarrasi, ucciso dai corleonesi nel 1988, e sulle sue quattro sorelle zitelle. Il film viene accolto con entusiasmo e vince tre David di Donatello. Segue nel 2000 “Sud Side Stori”, un’altra storia cantata e ballata, questa volta interpretata da centinaia di immigrati africani che raccontano le avventure trasfigurate di un Romeo e Giulietta moderni. Nel 2002 Roberta si allontana dalla commedia musicale per concentrarsi su “Angela”, film drammatico sull’amore sfortunato tra una donna siciliana e uno scagnozzo del marito mafioso. La pellicola, che debutta alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, segna l’esordio al cinema di Donatella Finocchiaro e si guadagna numerosi riconoscimenti.

Nel 2006 l’autrice cambia ancora registro e realizza “Mare Nero”, noir ambientato nel mondo degli scambisti con Luigi Lo Cascio e Anna Mouglalis. Il film non ha la stessa verve dei precedenti, ma lei non si perde d’animo e fonda una casa di produzione tutta sua, la Rosettafilm. Da produttrice realizza due corti: “I tiburtini” e un documentario-intervista sulla morte di Pierpaolo Pasolini, “La notte quando è morto Pasolini”.

Intanto prepara “La Ciociara” (la pièce teatrale ha debuttato a gennaio), mentre il 29 aprile uscirà nelle sale “I baci mai dati”, commedia agro-dolce già passata a Venezia e al Sundance Film Festival. Ambientata a Catania, con Finocchiaro nel ruolo di una madre volgare e snaturata, la storia parte da un miracolo: una tredicenne che parla con la Madonna. O almeno così dice.

Emozionata per l’uscita nelle sale?
Più che altro sono contenta. A Venezia, ma soprattutto al Sundance, ho provato tante emozioni. E’ sempre affascinante vedere il proprio film all’estero: la reazione del pubblico non è viziata dai pregiudizi italiani.

Come ha reagito la critica americana?
Bene…il film ha ricevuto parecchi applausi. E’ una storia semplice che parla di sentimenti universali. Può colpire a prescindere dalla nazionalità.

Ha pensato subito alla Finocchiaro per la parte della madre?
La protagonista è la ragazzina, all’inizio ho cercato soprattutto lei. Poi, pensando al ruolo brillante della madre, mi è venuta in mente Donatella. Conoscendola come amica, sapevo di questo suo talento comico che sta uscendo fuori anche grazie ad altri film.

Chi interpreterà la parte della tredicenne?
E’ di Catania, si chiama Carla Marchese e debutta proprio con questo film. L’ho trovata per caso, facendo tanti provini. Lei non aveva mai pensato al cinema, è stata catapultata in questa avventura come succede nelle più classiche delle storie: ha accompagnato al provino l’amica e poi hanno preso lei. L’ho scelta per la faccia particolare, orientale a suo modo.

Il film contiene un aspetto grottesco e un aspetto drammatico.
L’aspetto grottesco riguarda il mondo che si muove attorno alla ragazzina da quando rivela di aver parlato con la Madonna. Immaginiamo la grande periferia del Sud e tutta una serie di personaggi che avanzano le richieste più strampalate: un posto di lavoro, la sparizione improvvisa del marito, la fama per il figlio che vuole partecipare al Grande Fratello. La parte più drammatica, ma anche più dolce, è quella del rapporto tra madre e figlia: due donne che non si sono mai incontrate affettivamente.

E poi che cosa succede?
C’è un finale di grande speranza.

Come mai ha scelto ancora la Sicilia come location?
Sono stata legata a questa terra per molto tempo, il caso ha voluto che ci tornassi per un film. Non più a Palermo ma a Catania, dove ho scoperto un quartiere di periferia perfetto per la mia storia.

Che cosa l’ha spinta a trasferirsi in Sicilia dopo il diploma alla “Paolo Grassi”,?
E’ stato un colpo di fulmine, prima per un uomo e poi per la terra. Mi sono innamorata di un siciliano, mio figlio è nato a Palermo. Anche dopo la separazione sono rimasta per diversi anni: la Sicilia continuava ad attrarmi, soprattutto per le storie che mi ispirava.

Suo figlio vive ancora Palermo?
Sta per finire il liceo, poi se ne andrà anche lui. La Sicilia è una terra difficile.

Lavorerà nel cinema?
Penso di sì. E’ un musicista, non so se sceglierà la strada della regia o quella della musica.

“La Ciociara” l’ha avviata alla regia teatrale. E’ stato difficile arrivarci dal cinema?
Direi di no. Avevo bisogno di qualcosa di nuovo, l’ho trovato con il teatro. Ho amato soprattutto il lavoro con gli attori: è più profondo rispetto al cinema.

La protagonista è ancora una volta Donatella Finocchiaro.
Ci conosciamo da dieci anni, il nostro rapporto non ha più bisogno di parole: si guarda il lavoro che c’è da fare, si capisce che cosa ci si può dare, si affronta il viaggio insieme.

Com’è stato concepito lo spazio scenico?
Ci sono tre schermi: due dietro e uno davanti, come se fosse una grande scatola in cui gli attori si muovono ma vengono anche protetti. L’effetto è affascinante perché sembra una visione in 3D, una via di mezzo tra cinema e teatro.

Siamo lontani dal Neorealismo di Vittorio De Sica?
Assolutamente si, ma anche il testo lo è. La pièce è tratta dalla versione di Annibale Ruccello, un drammaturgo piuttosto visionario. Ritroviamo le due donne dopo dieci anni dalla guerra: sono prese dalla praticità del quotidiano e non hanno ricordi dello shock subito, il passato ritorna solo attraverso brevi flash. Lo spettacolo è un viaggio nel mondo dei fantasmi, un remake del film sarebbe stato inutile e poco interessante.

In un’intervista a RB Casting, Finocchiaro ha detto di essersi ispirata all’eroina di Alberto Moravia. Anche per lei è stato così?
Per me è andata diversamente. Mi sono concentrata sul rapporto di queste due donne, sul loro “rimosso”. Ho sempre preferito lavorare in libertà piuttosto che riferirmi ad altri.

Se si dovesse definire come regista?
Mah…più che una regista mi sento un’alchimista. Mi diverto a mescolare gli ingredienti che in apparenza non hanno alcuna affinità per tirarne fuori una magia. Ecco, quando lavoro mi sento un mago che sperimenta. Il regista è troppo razionale.

Da dove viene questa sperimentazione?
All’università ho studiato arte e filosofia: sul piano teorico, i miei maestri sono filosofi e artisti. Dal punto di vista cinematografico c’è stato Ermanno Olmi, che mi ha insegnato a lavorare con gli attori presi dalla strada: persone che non hanno mai recitato, da cui rubo un’espressione o uno stato d’animo. E’ un mondo vicino al documentario, l’obiettivo è quello di dipingere la realtà attraverso il ritratto.

Insegnamenti della “Paolo Grassi”?
La scuola è quella. Per chi, negli anni Ottanta, viveva al Nord era l’unica possibilità di lavorare nel cinema. In quel momento la trovai più simile a un addestramento militare (ride): solo in seguito, e rivalutando la grande arte di Olmi, ho capito quanto mi abbia formata.

All’inizio ha girato tanti documentari.
Sono stati la mia gavetta, ma anche la possibilità di esplorare mondi nuovi: le periferie d’Italia, i quartieri romani cari a Pasolini, la stessa cultura mafiosa. A tutti questi luoghi mi sono sempre avvicinata con una curiosità antropologica, prima che con l’occhio di regista.

In “Angelesse” colpisce l’utilizzo prepotente della luce.
Sono ritratti di donne che vivevano nella periferia palermitana: da un lato c’è il realismo dei loro racconti, dall’altro si va oltre la realtà. La mia idea era quella di trasfigurarne i volti, di farle diventare degli “angeli” con una luce che le mangia. Ricordo bene quel lavoro perché contiene tutti gli elementi per me fondamentali: il ritratto, la faccia, la luce e quella messa in scena un po’ teatrale che prende spunto dalla realtà.

Com’è nato il suo primo film?
Cercavo delle storie di magia tra i quartieri di Palermo. Una persona mi disse che mi avrebbe portato da una “maga”, in cambio avrei dovuto ascoltare una storia, quella di Tano Guarrasi. Il personaggio mi piacque subito: si trattava di un piccolo boss di quartiere, un Don Giovanni un po’ per bene e un po’ malandrino. Era perfetto per un’opera buffa.

Una satira dell’argomento mafia?
Più che altro è una fiaba nera. Raccontare favole è sempre stato il mio obiettivo.

La mafia è uno dei temi più ricorrenti nei suoi lavori.
Se vivi a Palermo non puoi non parlarne. Il mio modo di vederla è cambiato nel corso degli anni: non ho più la leggerezza di “Tano da morire” e nemmeno quella di “Angela”. Ho lasciato Palermo proprio perché non tolleravo più la violenza nei rapporti, quel sentire mafioso che purtroppo è una caratteristica congenita della Sicilia. Da milanese tutto questo mi è diventato insopportabile mentre mio figlio, che è nato lì, ha sviluppato degli anticorpi più forti.

In “Angela” ha raccontato la condizione della donna di mafia. La protagonista vorrebbe una vita diversa, eppure non ha il coraggio né l’intenzione di denunciare il marito.
E’ il codice mafioso che impedisce di dire la verità. Certo, ci sono state donne che hanno preso le distanze dalle proprie famiglie e però l’hanno pagata cara. La denuncia è ancora più difficile: l’idea di “fare la spia” non arriva perché la legalità non è vista come qualcosa di giusto o fattibile.

Il film viene da una storia vera. Come ne è venuta a conoscenza?
Da una donna che interpretava una delle sorelle di Tano, mi chiamò per raccontarmi una storia che poi era la sua. L’uomo che aveva amato era sparito per una lupara bianca, lei sosteneva che l’avessero ammazzato ma non ci sono mai state le prove. Nel finale del film non si capisce se l’amante è fuggito o  è morto.

Quanto l’ha aiutata la vera Angela nella ricostruzione del personaggio?
Tantissimo. Soprattutto dal punto di vista caratteriale, molti dei dettagli sui cui abbiamo lavorato appartengono alla storia vera.

Qualche critico l’ha definita un’autrice di culto.
Sicuramente quel film rappresenta un punto fermo nella storia del cinema italiano di un certo periodo. Nel complesso mi considero un’autrice fuori dagli schemi: per anni ho creduto di trovarmi su altro pianeta rispetto agli altri, una condizione che ho vissuto nel bene e nel male. Non è una scelta, semplicemente è un modo diverso di raccontare.

“Mare Nero” affronta un genere completamente diverso. Come nasce l’idea?
Dalla curiosità verso il mondo degli scambisti. La storia doveva avere una base sotterranea piuttosto forte, ma in fase di montaggio la produzione espresse parecchie perplessità. Alla fine, quella parte estrema che doveva essere la principale caratteristica della pellicola ne uscì talmente stemperata da risultare quasi inesistente.

Il film sembra una rilettura di “Eyes wide shut”. Era questa l’intenzione?
Assolutamente no. E però, mancando la parte che doveva rappresentare i corpi e i luoghi in modo quasi documentaristico, il film ha preso una direzione astratta e alla fine è stato penalizzato.

Se avesse la possibilità di rifarlo in piena libertà?
Lo rifarei partendo solo dai corpi. Racconterei l’altra faccia della famiglia italiana, quella scabrosa di cui mai nessuno parla. E riporterei fedelmente quelle immagini fortissime – donne che si accoppiano con venti uomini mentre il marito guarda – che non dimenticherò mai.

E’ stata questa l’esperienza che l’ha convinta a diventare produttrice?
Direi proprio di sì. “Mare Nero” mi ha dato l’input: non potrei più accettare di fare un film diverso dalle mie intenzioni! L’idea di produrmi i miei lavori, e non solo quelli, senza dover accettare alcun tipo di censura mi ha dato l’energia necessaria per ricominciare.

Che produttrice è Roberta Torre?
Quella che ogni autore vorrebbe incontrare. Ho lavorato sempre sulla libertà e so bene cosa serve a un regista: non ha bisogno di condizionamenti, ma di una spalla su cui appoggiarsi e che l’aiuti a vedere chiaramente dove sta andando.

Che cosa pensa dei tagli al Fondo Unico dello Spettacolo?
E’ innegabile che in Italia ci sia una crisi enorme che riguarda tutta la cultura. Purtroppo è passata l’idea che la cultura sia spreco. E’ vero che sono stati prodotti tanti brutti film, ma è vero anche che una nazione ha il dovere di rispettare e aiutare la sua cultura. Nello stesso tempo non credo che il problema del cinema italiano siano i soldi…

Si spieghi meglio.
E’ un problema di temi, di cultura cinematografica e di linguaggio, sempre più omologato a quello televisivo. Insomma, io credo che il vero cinema stia scomparendo. E se un Quentin Tarantino dice che i nostri film non sono competitivi non c’è motivo di arrabbiarsi: sta solo dicendo la verità!

E’ d’accordo con la legge che aiuta le opere prime e seconde?
La trovo ottima. E’ ora di combattere quel vizio tutto italiano di sostenere autori in età avanzata e che magari non hanno mai dato prova di avere qualcosa da dire. Credo che l’Italia abbia bisogno di giovani, di gente che abbia energie nuove.

Che cosa ne pensa della recente protesta delle donne?
Non mi ritrovo con queste dinamiche di parte, nonostante sia convinta che la dignità vada salvaguardata prima di tutto. In questo caso ho apprezzato la volontà di guardare al di là delle ideologie, di trovarsi unite sull’idea di un futuro nuovo.

In politica dovrebbero esserci più donne?
Le donne hanno metodi diversi. Io stessa mi trovo mille volte meglio a lavorare con le donne, forse perché una donna si riconosce più facilmente in un’altra donna. E però, fino a quando nei posti di potere ci saranno molti più uomini, per il popolo femminile sarà difficile farsi ascoltare.

Come regista ha incontrato più ostacoli rispetto ai suoi colleghi uomini?
Purtroppo sì. Le difficoltà arrivano soprattutto nelle fasi di produzione e promozione del film. Io ho seguito un percorso singolare perché raramente ho lavorato su commissione: quelle poche volte che l’ho fatto è scattata la discriminazione. Al di là del sesso, credo che il problema del cinema italiano sia un altro.

Vale a dire?
Se non appartieni a una famiglia potente, se non sei protetta da un produttore importante o da qualcuno che magari ha una certa influenza in Rai, fai una fatica tremenda. Posso dirlo a voce alta.

Ha qualche progetto in cantiere?
Ho in mente un lungometraggio sulla storia di mio nonno, il Pier Luigi Torre che ha inventato la lambretta. E’ il mio sogno da anni e poco a poco si sta realizzando. Dal momento  che è un film in costume, quindi molto costoso, sto cercando soldi anche fuori dall’Italia. Il racconto segue le varie fasi della sua vita anche con vari flashback: ci saranno le due guerre e il post-guerra, quando negli anni Sessanta è stato chiamato da Innocenti per realizzare il suo progetto.

Ha già pensato al protagonista?
Ancora no, ma saranno scelti almeno due attori: uno sui trentacinque anni e l’altro per interpretare un uomo sugli ottanta.

Dopo “La ciociara” continuerà a lavorare in teatro?
E’ tra i miei desideri. Ho diversi progetti: uno è la messa in scena di “Festen” di Thomas Vinterberg con il Bellini di Napoli. Il teatro è stato uno spazio di scoperta e di fascino: è venuto nel momento in cui facevo più fatica a trovare situazioni piacevoli nel cinema e mi ha dato una grande gioia.

Se non avesse scelto questo lavoro?
Avrei fatto la psicanalista.

Il film che le ha regalato più emozioni?
Sicuramente il primo, e poi c’è l’ultimo. Ogni volta che lo rivedo mi trasmette emozioni forti, forse perché in fondo racconta il rapporto tra me e mia madre. In maniera indiretta potrebbe essere una storia autobiografica: quando al Sundance mi hanno chiesto quali sono “I baci mai dati” mi sono commossa. In quel momento ho capito che ho scritto il film pensando a mia madre (scomparsa quattro anni fa, ndr).

Un attore o un’attrice che le piacerebbe dirigere?
Isabelle Adjani, brava soprattutto nel rappresentare il lato buio della vita.

I David di Donatello secondo la produttrice Torre?
Difficile! Posso dire quelli dell’anno scorso: miglior regia a “Le quattro volte” di Michelangelo Frammartino, miglior film a “Vincere” di Marco Bellocchio. E poi c’è “La prima cosa bella” di Paolo Virzì, mi ha fatto piangere.

E’ d’accordo con il recente verdetto degli Oscar?
Assolutamente si. “Il Discorso del Re” è un film meraviglioso.

Un suo pregio e un suo difetto.
La libertà. E’ un pregio ma è anche un difetto.

Il suo sogno?
Un musical a Broadway.

La sua paura più grande?
Perdere la libertà.

 

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