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RB Casting dà il Benvenuto a Pupi Avati

Intervista esclusiva a Pupi Avati

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Quando lo chiamo per l’intervista mi aspetto un regista-produttore super impegnato, invece mi ritrovo a parlare con un nonno premuroso. “Il mio nipotino sta spegnendo le candeline – dice – ci possiamo risentire tra una decina di minuti?”. Prendo appuntamento per l’indomani: la chiacchierata deve durare mezz’ora ma va avanti per oltre un’ora. Lui si racconta con generosità e mentre lo ascolto mi sembra di guardare uno dei suoi film: è saggio e ingenuo, cinico e sentimentale, concreto e sognatore, un uomo che sa analizzare lucidamente la società di oggi e però si infiamma quando è convinto di subire un’ingiustizia. Dall’album dei ricordi tira fuori l’amore non ricambiato per la musica, le ingenuità del primissimo ciak, i successi e gli insuccessi cinematografici, i cerchi che si chiudono. Perché “quando arrivi a 72 anni la circolarità diventa importante – spiega – e se tanto tempo fa hai aperto un cerchio, senti il bisogno di chiuderlo prima di andartene”.

Pupi Avati, regista e sceneggiatore da oltre quarant’anni, produttore con il fratello Antonio da quasi trenta, oggi si prepara all’uscita del suo 44mo film (“Il cuore grande delle ragazze”, in sala con Medusa dall’11 novembre) e intanto organizza il cast per la prima fiction (“Il matrimonio”, sei puntate per Raiuno in onda nel 2012). Il film è ambientato nell’Appennino emiliano degli anni Trenta, la storia è quella dei suoi nonni: interpreti Micaela Ramazzotti, la pop star Cesare Cremonini, Gianni Cavina e Andrea Roncato. La fiction, invece, racconta la storia d’Italia dal dopoguerra ai giorni nostri attraverso la famiglia del regista, dal matrimonio dei genitori alle generazioni successive, come in una specie di saga. Nel cast c’è sempre la Ramazzotti, questa volta in coppia con Flavio Parenti, e alcune guest star, come Christian De Sica che nella prima puntata avrà la parte del nonno.

Bolognese fino al midollo, “profondamente orgoglioso” del suo animo fanciullesco, dopo la laurea in scienze politiche Pupi diventa il clarinettista della Doctor Dixie Jazz Band, dove suona anche il giovane Lucio Dalla. Alla carriera musicale rinuncia quasi subito per dedicarsi, dopo qualche anno di “lavoro normale”, all’arte del cinema. L’esordio dietro la cinepresa è nel 1968, sul set dell’horror grottesco “Balsamus, l’uomo di Satana”, seguito da “Thomas e gli indemoniati”, con il suo attore feticcio Gianni Cavina e un’esordiente Mariangela Melato. Saranno due insuccessi che gli costano uno stop di quattro anni: tornerà a girare nel 1974 con il felliniano “La mazurca del barone, della santa e del fico fiorone”, protagonisti Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio e l’immancabile Cavina.

La prima affermazione arriva nel 1976 con un altro horror, “La casa delle finestre che ridono”, storia di un uomo che deve restaurare l’ultimo affresco di un pittore pazzo. Nel 1978 Pupi diventa noto al grande pubblico con due sceneggiati televisivi: “Jazz band” e “Cinema”. Dichiaratamente autobiografici, i lavori danno il via a “la nostalgia dei ricordi”, tema importante che ritroviamo, ancora oggi, in quasi tutti i suoi film. Su questa scia esce, nel 1983, “Una gita scolastica”: la pellicola vince cinque Nastri d’Argento, un Globo d’Oro e il premio Pasinetti per il protagonista Carlo Delle Piane. Seguono storie amare e crudeli, come l’apprezzatissimo “Regalo di Natale” (con Cavina, Delle Piane che vince il Leone d’Oro, Diego Abatantuono e Alessandro Haber) e ritratti sociologici del tipo di “Storie di ragazzi e ragazze” (un David di Donatello e due Nastri d’Argento).

Negli anni Novanta Pupi gira diversi altri film, tra cui l’ottimo “Festival” dedicato al mondo del cinema (due Nastri d’Argento), il fantastico “L’arcano incantatore”, il drammatico “Il testimone dello sposo”, la commedia “La via degli angeli” e l’avventuroso “I cavalieri che fecero l’impresa”. Nel 2003 ottiene il David di Donatello per la miglior regia con “Il cuore altrove” (protagonisti Neri Marcorè e Vanessa Incontrada), a cui seguono l’autobiografico “Ma quando arrivano le ragazze?” con Claudio Santamaria e Paolo Briguglia, “La seconda notte di nozze” e “La cena per farli conoscere”. Nel 2008 è la volta del bel ritratto psicologico “Il papà di Giovanna”, grazie al quale i protagonisti Silvio Orlando e Alba Rorhwacher fanno incetta di premi, e del nostalgico “Gli amici del bar Margherita”; mentre il 2009 è l’anno dell’amaro “Il figlio più piccolo” con Christian De Sica, Laura Morante, Luca Zingaretti e l’esordiente Nicola Nocella.

L’ultimo film è il sottovalutato “Una sconfinata giovinezza” (protagonisti Fabrizio Bentivoglio e Francesca Neri),  che affronta il delicato tema dell’Alzheimer con coraggio, sensibilità e veridicità. Escluso dalla competizione dell’ultima Mostra di Venezia (il direttore Marco Müller lo voleva fuori concorso, Avati si è sentito preso in giro e ha rinunciato) il lungometraggio ha deluso anche sul fronte degli incassi e, a distanza di un anno, rappresenta per l’autore “una ferita ancora aperta”.

Signor Avati, crede che se il film avesse partecipato al concorso sarebbe andata diversamente?
Ne sono convinto! Con una vetrina come Venezia il film avrebbe avuto un destino più felice e tutto quello che ho fatto nei confronti dell’Alzheimer avrebbe avuto più senso. Per me la pellicola andava aiutata, perché non era pigramente commerciale e perché affrontava un tema così doloroso che in tanti, anche i critici più scrupolosi, si sono tenuti alla larga dal vederla. I pochi che l’hanno vista, però, si sono chiesti il motivo della sua esclusione…

Tra un mese partirà la 68ma edizione della Mostra. E’ d’accordo con le scelte di quest’anno?
Venezia è una grande opportunità, se la partecipazione italiana è consistente non posso che esserne felice.

Nel toto nomine sul prossimo direttore, alcuni rumors la vorrebbero tra i candidati in ragione della sua distanza dalle logiche politiche. Accetterebbe?
La cosa mi lusinga, ma finché posso voglio continuare a raccontare storie. Condivido, però, il fatto che la nomina non debba ubbidire ai giochi della politica.

Parliamo del prossimo film, “Il cuore grande delle ragazze”. Da dove viene il titolo?
E’ una sorta di riconoscimento dell’universo femminile, per lungo tempo quasi ignoto a quelli della mia generazione. Siamo cresciuti in una cultura tutta al maschile, dove le confidenze tra maschi non erano comparabili a quelle che intrattenevamo con l’altro sesso. Le ragazze che abbiamo amato, soprattutto quelle belle, sono state desiderate e corteggiate per poi diventare improvvisamente mogli. E la fase intermedia, quando la ragazza può essere anche un’amica, era un concetto totalmente dissonante. Eravamo educati a pensare alla donna come a un oggetto misterioso: poi, frequentando per lavoro il mondo femminile e soprattutto dopo 47 anni di matrimonio, ho scoperto che il cuore delle donne è molto grande. Hanno a disposizione un’intelligenza e una sensibilità che al maschio manca, e che oggi purtroppo sono considerate sempre meno.

Mi racconta qualcosa della storia?
Il film parla dell’amore tra un uomo e una donna, i miei nonni, con uno sguardo ravvicinato su mia nonna. Lei ha subito un matrimonio difficile con uno dei donnaioli più impenitenti di tutta Sasso Marconi e Bologna, e tuttavia gli è sempre stata vicina. E’ stata così forte e capace! Forse oggi sarebbe derisa, ma allora c’erano tante donne fatte in quel modo. Con questo film ho voluto raccontare tutta la loro forza.

Come ha scelto la coppia Cremonini-Ramazzotti?
Micaela ha cominciato a fare cinema in una nostra produzione, “La prima volta” di Massimo Martella. In seguito ha interpretato un cameo in un mio film, “La via degli angeli” per poi maturare con il marito Paolo Virzì. E’ una delle migliori attrici con cui ho lavorato, una delle più sorprendenti e intuitive. E’ capace di appropriarsi del personaggio e di interpretarlo senza bisogno di indicazioni: a un certo punto è diventata la mia Francesca e io non ho potuto far altro che ammirarla! Cesare è una provocazione, non la prima: se i nostri cast hanno una qualità è quella di andare a pescare gli outsider, a dimostrazione che anche fuori dallo star system si può trovare il talento. Cremonini sarà una sorpresa: l’ho visto per la prima volta in un’intervista televisiva e ho pensato subito che poteva interpretare il mio personaggio, un ragazzone bolognese un po’ lento di riflessi ma assolutamente seducente.

E’ stato difficile dirigerlo?
Affatto. Il confronto con un’attrice svezzata come Micaela non era facile, ma lui ha molto orecchio e ha saputo intonarsi alla verità della storia. In fondo la capacità di un attore è nel rendere credibili azioni e parole, e lui questa dote ce l’ha. Certo senza provini e fidandoci solo di un’intuizione, io e mio fratello corriamo parecchi rischi, ma in questo caso è andata bene.

E’ vero che per questo film è tornato a suonare il clarinetto con Lucio Dalla?
Ho fatto un pezzettino di nascosto da tutti, solo per rimettere assieme i nostri nomi dopo 50 anni. Quando arrivi a 72 anni la circolarità diventa importante: negli ultimi tempi mi è capitato spesso di tornare alle situazioni da dove sono partito e suonare con Lucio era una di queste. Musicalmente è un brano assolutamente insignificante, affettivamente ha un valore profondissimo.

Quanto ha contato la musica nel suo percorso?
E’ stata la presenza costante di un’intera vita. A parte “Jazz band”, ho girato “Bix” che è la biografia del più grande jazzista bianco d’America e soprattutto “Quando arrivano le ragazze”, un film assolutamente autobiografico. Nel rapporto tra il personaggio di Santamaria dotato di talento che convince l’amico Briguglia a rinunciare alla musica, c’è tutto il rapporto tra me e Lucio. Insomma la musica è stata il mio grande rammarico, io l’ho amata tanto ma lei non mi ha amato per niente (ride). Per fortuna ho incontrato il cinema!

Che mi dice del nuovo progetto per Raiuno?
Con “Il matrimonio” ci affacciamo a un genere che non conosciamo: quando lavoravamo per la tv i film si chiamavano sceneggiati ed erano diversi dalle fiction attuali. Oggi la produzione televisiva obbedisce a regole precise e piuttosto severe, c’è l’ansia degli ascolti che condiziona in modo feroce. In questo contesto, poter realizzare un progetto che ho nel cuore da tanto tempo è stata una grande gioia.

Sfogliamo l’album dei ricordi. Tra le pellicole più recenti c’è “Il figlio più piccolo”.
E’ un film sulla corruzione arrivato in sala con una tempistica imprevedibile perché proprio in quei giorni esplodevano una serie di casi sull’argomento (tra i più eclatanti l’inchiesta sui lavori del G8, ndr). La coincidenza si è rivelata tutt’altro che vantaggiosa: la gente ne sentiva parlare in tv dalla mattina alla sera e non ne poteva più. Da lì ho cominciato a capire che le tematiche più serie e socialmente incisive cominciavano ad essere rifiutate, e che da allora in avanti un certo tipo di cinema sarebbe stato sempre più difficile.

Nel film racconta il cinismo senza mai giudicarlo. Come mai questa scelta?
Perché di natura sono una persona che preferisce la testimonianza alla denuncia. La pellicola parla dell’interesse che prevale sui sentimenti: lo stesso succede in “Regalo di Natale” e nel sequel “La rivincita di Natale”, due film dolorosi dove in qualche modo ho cercato di capire le ragioni di certi comportamenti. L’essere umano è un oggetto misterioso: è facile giudicarlo dall’esterno e però, quando gli entri dentro – e l’obiettivo della macchina da presa può arrivare a radiografare – una qualche giustificazione la trovi sempre. Insomma, in una società dove tutti giudicano tutto, io preferisco astenermi.

Pensa anche al giudizio dei critici?
Certo. Ho cominciato a prendere voti a sei anni e non ho mai smesso: tre stelline, quattro stelline, una faccina che ride e un’altra che piange…va bene a scuola ma non per un film. Si può ridurre a un voto un’opera che in creatività e rischi d’impresa è costata anni di vita? E’ una sintesi offensiva e avvilente, tant’è vero che Tullio Kezich si è sempre rifiutato. E poi, soprattutto in campo creativo, accade spesso che dopo tanti anni la critica ribalti letteralmente la sua idea.

E’ successo a qualche suo film?
E’ successo a più di un mio film. Un esempio è “La casa delle finestre che ridono”: adesso è considerato un cult, una specie di capolavoro del gotico padano (ride), ma ai tempi le recensioni furono piuttosto negative. Ecco, a molte delle persone che ora lo lodano, mi piacerebbe riproporre ciò che scrissero allora…

Che ricordi ha di quella pellicola?
La realizzammo in condizione di estrema emergenza: venivamo da “Bordella”, un grande insuccesso commerciale che tra l’altro ci era costato una denuncia e un sequestro per oscenità. Recuperammo con questo piccolo film a costo minimo, 152 milioni di lire nel 1976. Eravamo in dodici: mio fratello si occupava di produzione, regia e scenografia; l’aiuto regista faceva anche il fonico e il costumista…E come succede in tutti i film dell’orrore ci divertimmo tantissimo!

All’inizio degli anni Settanta ha collaborato anche con Pasolini…
Con lui scrissi la sceneggiatura di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. Il regista doveva essere Sergio Citti, che era anche co-sceneggiatore, ma la società di produzione fallì e il film si fermò. Dopo qualche anno incontrai Pasolini al ristorante “La carbonara”: decidemmo di riprendere il progetto, questa volta con la sua regia. Scriverlo fu lusinghiero ma anche difficile: si trattava di una materia dolorosa e tremenda, e riportare certi dialoghi fu davvero terrificante. Credo sia il lungometraggio più terribile mai girato in Italia.

Torniamo all’album. Mi racconta il passaggio dal clarinetto alla cinepresa?
Tra la musica e il cinema c’è stato un intervallo di quattro anni: avevo poco più di vent’anni e non avendo né arte né parte mi trasferii a Milano per fare l’impiegato di un’azienda di surgelati. Ma dentro di me rimaneva quel desiderio, comune a molti ragazzi di provincia, di emergere in qualche modo. Vedendo “8 e ½” di Fellini mi resi conto delle potenzialità del cinema e così convinsi alcuni miei amici di Bologna a diventare cineasti, fino a quando un mecenate locale non ci diede i soldi per il debutto. Il film non ebbe successo ma in compenso mi iniziò al lavoro sul set.

Ricorda il suo primo ciak?
Era il 12 settembre 1968. Ricordo che invece di dire “motore” dissi “ciak”, facendo capire alla troupe dei romani appena ingaggiati che ero totalmente incompetente.

E poi che successe?
Al secondo film seguirono quattro anni di disoccupazione romana, fino a quando non arrivò Ugo Tognazzi: venne a lavorare con me quasi gratis, in un gesto di generosità totale. La pellicola (“La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone”, ndr) non fu un gran successo ma bastò a coprire i costi, mettendo in moto quel motorino che non si è ancora spento.

Chi sono stati i suoi maestri?
Fellini in tutti i sensi: come regista e come essere umano assolutamente seducente. Grazie all’amicizia tra la moglie Giulietta e mia madre, ebbi modo di conoscerlo bene negli ultimi anni di vita. Condivido tutto quello che lui scriveva o faceva sul cinema, e le ragioni della sua arte sono esattamente le mie.

Per esempio?
Penso ai temi di “8 e ½”: la provincia, la voglia di giocare e di piacere, la bugia e la verità. In quel film ci sono tutte le potenzialità del cinema, uno strumento meraviglioso che ti permette di ricostruire e rivivere pezzi interi della vita come fossero reali.

E’ per questo che quasi tutte le sue opere sono autobiografiche?
Credo proprio di sì. Nel film “Gli amici del bar Margherita”, per esempio, mi rivedo nel personaggio di Coso per la mia fatica a farmi riconoscere, da ragazzo. E quei passi che alla fine lui fa all’indietro, sono i 370 km che separano Bologna da Roma e che ho dovuto percorrere per raccontare le mie storie.

Un film che non rifarebbe?
Non esiste, sarebbe come negare un anno della mia vita. Certo ci sono film poco riusciti, ma ognuno assomiglia a quello che sono stato nell’anno in cui l’ho girato: se pur doloroso, è servito a crescere. Del resto sono soprattutto gli errori a insegnarti qualcosa e se adesso ho il completo controllo del mezzo lo devo alle mie cicatrici.

Un suo difetto e un suo pregio.
Sono invidioso e però, invecchiando, lo divento sempre meno. E sono buono: quando conosco le persone con cui ho avuto un rapporto difficile e finalmente ho l’opportunità di vendicarmi, non lo faccio mai.

Ha un animo un po’ fanciullesco…
Ne sono profondamente orgoglioso.

Dei fratelli Avati “il figlio più piccolo” è dunque lei?
E’ una bella lotta, forse sono io. Mio fratello, che pure all’anagrafe è il più piccolo, si è sobbarcato di tutte le incombenze finanziarie, mentre io ho avuto il privilegio di poter restare un po’ bambino.

Il suo sogno?
Riuscire a chiudere tutti i cerchi prima di andarmene.

Il cerchio a cui tiene di più?
Quello affettivo. Mi piacerebbe vedere i miei tre figli realizzati.

La sua paura più grande?
Quella di morire, ma preferisco morire che sopravvivere alle persone care.

 

3 Commenti

  1. sono un maceratese,ho lavorato nel film di PUPI AVATI. il cuore grande delle ragazze,sono stato scelto dal regista FARINA. E’ stata un’esperienza unica, bellissima.!!! Saluti, FLAVIO BRIZI.

  2. vorrei tanto che Pupi Avati mettesse in commercio o chi ne ha le facoltà il film thomas ,della quale mio padre ha lavorato e ricorda di aver messo lo scialle sulle spalle della Melato in una scena.E che Avati abitava di fronte al nostro palazzo in via Libia ,era l’unico periodo dove alla sera quando rientrava dalle riprese portava il cibo avanzato e ci poteva sfamare.

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