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RB Casting dà il Benvenuto ad Elena Sofia Ricci

Intervista esclusiva ad Elena Sofia Ricci

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Elena Sofia Ricci: “La mia carriera è uno slalom speciale, non amo le etichette”

L’abbiamo vista di recente nella miniserie “Le due leggi”, andata in onda a Marzo su Rai 1, dove interpretava una direttrice di banca che rifiuta un credito a un imprenditore in crisi e dovrà fare i conti con la sua coscienza all’indomani del suicidio dell’uomo strozzato dai debiti. E a breve cominceranno le riprese della terza stagione di “Che Dio ci aiuti”, che la vede protagonista nel ruolo di Suor Angela e che da Modena si trasferisce a Fabriano. Abbiamo raggiunto telefonicamente l’attrice fiorentina per una lunga chiacchierata sulla sua altrettanto fitta carriera.

3883-Elena-Sofia-RicciVorrei ripercorrere le diverse tappe della sua carriera, partendo proprio dalla prima esperienza cinematografica con Pupi Avati in “Impiegati”. Questo ruolo le valse anche il Globo d’Oro come miglior attrice rivelazione. Cosa prova oggi ripensando a quell’esperienza?
Fu una grandissima esperienza e una grande emozione incontrare Pupi perché per me era un mito, un grande regista come lo è tuttora. E’stato soprattutto un grande maestro perché mi ha fatto capire la grande differenza tra il recitare e il parlare, come nella vita. Proprio dopo aver girato una scena di “Impiegati”, che io pensavo di aver imparato tanto bene, lui ci disse “Bene, questa faceva abbastanza schifo. Se adesso riusciste a farla parlando come parlereste nella vita, sarebbe molto bello da parte vostra”, rimproverando me e il povero Claudio Botosso. Per me fu una doccia fredda e non dimenticherò mai quella frase, ma lo ringrazierò a vita per l’insegnamento. In fin dei conti mi stava dicendo “se potessi parlare anziché recitare ti sarei grato”. La vera difficoltà è quella di essere naturali e di dare l’impressione di aver appena pensato una determinata cosa e quindi di dirla in quel momento. Naturalmente, i premi e i riconoscimenti fanno sempre piacere ma sono le esperienze profonde che cambiano il modo di relazionarti con il tuo mestiere quelle che fanno la grande differenza in una carriera.

Rimanendo sempre nel cinema, a 25 anni arriva un’altra prova importante, “Io e mia sorella” di Carlo Verdone, premiata con il Nastro d’Argento, il David di Donatello e il Ciak d’Oro. Come avvenne l’incontro con Verdone?
Fu buffissimo. Avvenne insieme a Leo Benvenuti e Pietro De Bernardi, grandi sceneggiatori che poi sono diventati amici di famiglia. Mi incontrarono per discutere il personaggio di Serena, che non era scritto per essere toscano. Io sono toscana, così come Benvenuti e De Bernanrdi, e proposi loro “Sarebbe bello se potessi farlo in toscano, in fondo il film si svolge a Spoleto, lui è di Roma, lei è di Firenze. Se così fosse, io avrei tante sfumature da portare al personaggio, come quel modo di fare delle signore bene di Firenze che io conosco”. Loro si entusiasmarono subito e venne fuori il mio personaggio. Quell’incontro ci fece molto ridere, così come la costruzione di quel ruolo. Non credevano che la moglie rompiscatole caratterista, potesse essere anche molto carina ed io lo ero. C’era la donna antagonista, una bellissima Ornella Muti che a quel tempo era particolarmente bella perché era incinta di Andrea, ed io che ero abbastanza carina. Loro erano appunto orientati verso una moglie caratterista. Io li convinsi con queste mie proposte di personaggio che risultavano un po’ antipatiche e noiose che, al contempo, facevano anche ridere.

Infatti questa è una delle sue caratteristiche, la capacità di passare da ruoli drammatici e comici con una certa elasticità. Di certo si può dire di lei che sia istrionica.
Credo sia proprio questo il motivo per il quale ho deciso di fare questo mestiere. Mi piace mettermi sempre alla prova e cimentarmi in cose diverse. La mia carriera ha le caratteristiche di uno slalom speciale. In tutto il mio percorso, cinematografico, teatrale e televisivo (che poi si mischiano e io non mi sono mai fossilizzata in niente) ho sempre cercato di scartare le etichette. Ed è una caratteristica dei miei 33 anni di lavoro. Non mi è mai piaciuto essere incasellata da qualche parte.

7474-elena-sofia-ricciNel ’90 arriva un altro grande riconoscimento, il David di Donatello come miglior attrice protagonista” in “Ne parliamo lunedì”. Cosa ha significato in quel momento e quando ha capito che stava percorrendo la strada giusta?
Non ho mai sentito e non ho mai neanche pensato di doverla prendere la strada giusta. Tutta la mia ambizione era rivolta nel tentare disperatamente di realizzare il mio sogno di avere una famiglia. Il mio progetto più importante non era quello di avere una carriera come quella che ho avuto. Da bambina giocavo e facevo finta di lavorare nel mondo dello spettacolo, mi presentavo da sola, imitavo Raffaella Carrà o Pippo Baudo che presentavano Elena Sofia Ricci, ma non ho mai messo ansia e progettualità nella carriera. Ho fatto le cose che mi piacevano in maniera molto naturale e mi sono arrivate delle proposte di lavoro esattamente nella direzione in cui io avrei sognato farle. Dopo “Io e mia sorella” fare “Ne parliamo lunedì” era il massimo. Dopo aver interpretato una signora borghese, tutta per bene, in punta di forchetta e moralista, fare una dark lady di provincia era una cosa rivoluzionaria. Io credo di essermi aggiudicata tutti quei premi quell’anno perché ho sorpreso interpretando una donna completamente diversa. Ricordo la sera della vittoria del David di Donatello. Mai e poi mai avevo pensato di poter vincere. Mi sembrava un traguardo incredibile già essere in cinquina con Virna Lisi, Stefania Sandrelli, Lina SastriAnna Bonaiuto. Erano 4 attrici per me talmente grandi che ero già felice di essere lì. Non avevo neanche immaginato che potesse esserci quella possibilità. Tutta l’ansia la dirigevo nel costruirmi una famiglia; le mie scelte professionali sono venute in maniera molto più rilassata e quasi in secondo piano.

E a quanto pare è stato un approccio vincente.
Perché non ci ho mai messo ansia, non ho mai messo voglia di arrivare. L’ho fatto con tanta passione, tanto cuore, tanto entusiasmo, con tanta voglia di divertirmi e mettermi in gioco, di crescere e di rischiare. Anche quando sono tornata in teatro, è stato molto faticoso e lì ho fatto grandi salti di crescita ma sempre con la passione e mai con il desiderio di ottenere un risultato. Il risultato era già nel fare.

Lei ha esordito a tutti gli effetti in teatro, ancor prima che al cinema. E’ sempre molto ambito da ogni attore perché considerato la vera palestra. Cosa significa e qual è veramente la differenza?
Ovviamente posso parlare per la mia esperienza. Quella del teatro è una grande scuola di tecnica, di vita, di capacità di sentire lo spazio e il pubblico, di avere orecchio e di intonarsi all’altro, di ascoltare lo spettatore che pur nel silenzio ti dice tante cose. Significa imparare ad ascoltare e a riempire uno spazio scenico cercando l’attenzione. Questa cosa poi te la porti in scena, nel cinema e nella televisione, ma io sono certa che i grandi scatti, proprio come tecnica e crescita artistica, ho proprio sentito fisicamente di farli in teatro. Mi è sempre piaciuto interpretare i grandi classici (Molière, Goldoni, Shakespeare, Pirandello) perché anche questi sono una grande palestra e hanno sempre ragione. Tu non puoi portare Shakespeare a te, devi essere tu ad andare verso Shakespeare. E’ come un disperato che deve raggiungere l’oasi nel deserto, che non ce la fa più ma sa che l’oasi è lì. Ecco, io mi sono trovata in grandi difficoltà quelle volte che ho affrontato Lady Macbeth piuttosto che il personaggio dell’Ignota in “Come tu mi vuoi” di Pirandello. Erano prove molto più grandi di me e proprio in quelle due occasioni particolari mi sono accorta della crescita che avevo fatto senza rendermene conto. Dovevo portare in fondo uno spettacolo di 2 o 3 ore senza vergognarmi. E devo dire che molto mi è servita l’esperienza cinematografica e televisiva. Quando ho interpretato “Come tu mi vuoi” ho fatto delle registrazioni dello spettacolo, me le sono riviste, me le sono ristudiate e mi sono corretta. Perché credevo di far bene delle cose, invece ho realizzato che dovevo cambiare tiro.

Non tutti amano rivedersi.
Io non solo mi rivedo e mi piace farlo, ma ho imparato tantissimo perché mi sono potuta correggere. Ho rivisto gli errori, le debolezze e le fragilità e realizzi tante cose, che magari non si capisce niente quando parli per la fretta di farlo e per paura di annoiare. E invece annoio perché la gente non ha il tempo di capire. Ti rimetti in discussione ed è molto utile per crescere.

elena-sofia-ricci-8885555Lei ha lavorato con i principali e più grandi registi italiani, da Ozpetek a Brizzi, Veronesi, oltre a quelli già menzionati. C’è un personaggio da lei interpretato che le sta particolarmente a cuore?
Ce ne sono molti altri con cui vorrei lavorare ma indubbiamente sono contenta così. Anche se lo avessi non glielo direi perché non sarebbe giusto nei confronti degli altri.

Molto diplomatica.
Ciascuno dei personaggi che ho interpretato mi sta a cuore per ragioni diverse. E amo tutti i personaggi per quanto diversi sono tra loro e soprattutto sembrano interpretati da tre attrici diverse. Questa è la cosa di cui sono più orgogliosa. Mi scuso per la totale mancanza di modestia ma è la cosa che mi piace di più. Poi magari sono fatte male ma almeno sono diverse (ride, ndr).

85183-elena-sofia-ricciEsistono i colpi di fulmine con i personaggi che si interpretano?
Questa è una bella domanda che non mi viene fatta frequentemente. Esistono i colpi di fulmine. A me è successo in “Mine Vaganti”. Quando ho letto il copione che Ferzan mi ha portato, il mio personaggio diceva solo “Al ladro, al ladro”, nient’altro. E Ferzan era un po’ “mortificato” perché avrebbe voluto darmi più spazio mentre io ero disposta anche a portare i caffè sul set pur di lavorare con lui. Ho letto la sceneggiatura e il mio personaggio non parlava, beveva e diceva solo “Al ladro, al ladro”. Eppure sono impazzita perché io questa donna l’ho vista. Ho bisogno di vederli e imitarli i personaggi. E così ho detto a Ferzan “Lo faccio, non me ne frega niente”. Poi sono andata in ufficio e ho messo gli occhiali perché non vedo benissimo, così quel personaggio è diventato una donna che non ci vedeva e poi sono nate quelle scene e battute che interpreto nel film. Il personaggio non esisteva così, o meglio esisteva ed era molto forte pur non parlando. Invece, quando Ferzan mi ha chiamato per “Allacciate le cinture” e mi ha raccontato per telefono il personaggio, ho riso molto. E ho così tanto amato Ferzan che davvero andrei a fare qualsiasi cosa per lui, anche la comparsa. Ho visto questo personaggio che non aveva personalità ed è stato molto più difficile per me interpretarlo  erché non lo vedevo. E Ferzan mi diceva “Io mi sento così sicuro con te”, e io “Io invece per niente. Dimmi tu cosa fare”. Poi ho cominciato a lasciarmi andare. E interpreto una pazza che interpreta dei ruoli e ogni tanto le scappa di essere se stessa.

Un’attrice che ha lavorato con Ferzan Ozpetek, nel corso di un’intervista mi ha detto “Lavorare con lui è un’esperienza che ogni attore dovrebbe fare almeno una volta nella vita”.
Sono davvero d’accordo con lei. Lavorare con Ferzan è un’esperienza che io auguro a tutte le persone a cui voglio bene perché è un dono stare con lui sul set. Mi sono divertita e ho provato quella sensazione rarissima di essere dispiaciuta quando finisce una giornata di lavoro e non vedi l’ora che arrivi il giorno dopo per tornare sul set con lui. La parte più bella del suo lavoro è proprio la parte creativa. Vuole sapere cosa pensi tu della scena, ti porta a casa sua, ti fa sedere ad un tavolo e ti dà da mangiare. Ti coinvolge e tiene fortemente in considerazione quello che gli viene detto. Ascolta e cambia idea. Con lui tu crei e costruisci. Ti dà la sensazione di lavorare insieme al progetto comune. E’ una sensazione stupenda che io auguro a tutti. E poi lui è divertente, è molto simpatico e ironico. Adoro il suo modo di lavorare.

Tornando alla sua carriera, lei ha fatto tanta tv, tanto teatro, coproduzioni internazionali, videoclip. Sente che c’è qualcosa che le manca?
Ho fatto anche fotoromanzi e radio. Proprio per non farmi mancare niente. Ci tengo a precisarlo perché non sputo sul lavoro e non mi piace essere snob. Il lavoro, in quanto tale, è tutto nobile e soprattutto, come mi insegnò Marcello Mastroianni quando ero ragazzina ed ebbi il privilegio di essere tenuta in braccio da lui, “Ricordati che questo lavoro lo si impara facendolo”. Ho fatto tutto e continuo a imparare ogni giorno. Ci sono delle storie che mi appassionano molto e ci sono dei personaggi che mi piacerebbe interpretare, ci sono un po’ di progetti che mi stanno a cuore che non so se riuscirò mai a portare in porto.

…Nel frattempo, Elena Sofia Ricci rientra a casa dopo una giornata di lavoro e assisto ad un estratto di vita quotidiana di Elena Sofia madre e moglie. Mentre sono in attesa, la sento parlare di ravioli al vapore che ha comprato per una sua amica, la sento parlare con la sua figlia più grande che è stanchissima ma comunque non rinuncia ad uscire…

elena-sofia-ricci-1111Come è cambiata dagli esordi a oggi?
Sono rimasta una donna come tante e al contempo sono cambiata molto e menomale. Non sono passati invano questi 33 anni di lavoro. Non so, piuttosto, quanto io sia cambiata grazie alla carriera o grazie alla vita. Ero più fragile e insicura, più bisognosa di conferme, mi volevo molto meno bene di ora.

La difficoltà più grande che ha incontrato nel corso della sua carriera?
Interpretare Lady Macbeth con Giancarlo Sepe è stata una prova molto difficile. Avevamo metodi diversi e volevamo raggiungere lo stesso obiettivo, ma io non riuscivo a farlo nel modo in cui lui mi chiedeva. E quindi sono dovuta tornare sui miei passi, smontare tutto e rifarlo. E’ stato un momento difficile in cui ho vacillato. Ho tenuto duro e sono andata in scena. E quel gigante di Franco Branciaroli che faceva Macbeth con me, mi disse “Se sei riuscita ad andare in scena con questo testo, questo spettacolo, questo personaggio, puoi fare qualsiasi cosa”. Avevo messo grinta e non mi ero arresa.

Sente di dover dire “grazie” a qualcuno?
A tutti davvero. Almeno ad una quarantina di persone, nel dettaglio. E soprattutto al pubblico, perché se lavoro così tanto è grazie a loro. E devo dire grazie al mio primo maestro, così non faccio torti a nessuno, che è Mario Scaccia che mi insegnò a leggere le critiche e a dimenticarle. E che l’unica voce da tenere in considerazione è quella del pubblico perché è per loro che recitiamo.

Qual è ad oggi il suo desiderio più grande?
Quello di invecchiare in salute, di poter finire la mia vita senza passare per sofferenza o malattia. Ho visto molte persone, chiaramente molto vicine a me, andarsene in una maniera in cui la dignità dell’uomo viene davvero messa da parte. E di questo ho paura. Conduco una vita sana, noiosa. Margherita Buy mi prende molto in giro per questo. E quando abbiamo fatto “Amiche Mie”, mi passava vicino con un bicchiere di vino e indicandolo mi diceva: “Si muore!”. Mentre Ferzan mi dà della mosca bianca. Non è sempre stato così, in passato ho avuto anche i miei periodi di stravizi, passando per qualche girone dantesco.

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