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Festival di Roma 2011: l’anti-divo Richard incanta il red carpet, commozione per i bambini “lunari”

Nella penultima giornata del Festival Internazionale del Film di Roma il tappeto rosso è tutto, o quasi, per la star Richard Gere. Sorridente e generoso, venuto a Roma per presentare la versione restaurata del suo primo film da protagonista, “Days of Heaven” (“I giorni del cielo”, 1978) di Terrence Malick, e per ricevere il Marc’Aurelio d’Oro, l’attore hollywoodiano non si è mai comportato da vero divo. Concedendosi alla folla in delirio per quasi un’ora, ha lasciato i fotografi ad aspettare ed è tornato indietro più volte per dispensare abbracci, strette di mano e autografi ai fortunati in prima fila.

Ma ieri è stata anche la giornata dei documentari impegnati: “The Dark Side of the Sun” sui bambini malati di XP (Xeroderma Pigmentosum), “Case chiuse” di Filippo Soldi e “Diversamente giovane” di Marco Spagnoli. Per la sezione “Alice nella città”, sono passati in concorso “Death of a Superhero” di Ian Fitzgibbon e “No et moi” di Zabou Breitman. Omaggio, infine, a Monica Vitti (ai suoi 80 anni il Festival ha dedicato una mostra fotografica), con la presentazione del libro “La dolce Vitti” e la proiezione dei film “Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca” (1979) e “Scandalo segreto” (1990).

LA TERZA VOLTA DI RICHARD

In sei anni di Festival Gere è venuto nella capitale per tre volte. “Amo l’Italia, amo Roma – ha detto ieri mattina ai giornalisti – ho ricevuto il primo premio internazionale qui da voi, un David di Donatello proprio per il ruolo in ‘Days of Heaven’. L’Italia è stato il primo Paese a riconoscere il mio lavoro”. In conferenza stampa l’attore ha parlato di cinema ma soprattutto di vita, facendo capire che famiglia, buddismo e causa tibetana vengono molto prima del ruolo di “attore star”. “Il rapporto con la mia famiglia – ha spiegato – è sicuramente al primo posto e poi vengono i maestri. Sono appena tornato da Katmandu, in Nepal, dove è morto uno di loro. Sono andato lì al quarantesimo giorno della sua scomparsa perché nella tradizione tibetana è un momento molto importante”. Parlando della filosofia Zen e dell’influenza che ha avuto sulla sua vita ha poi detto: “credo che tutti provino un certo disagio nei confronti dell’Universo in cui viviamo. Anche io lo provavo da giovane e dopo molte ricerche mi ha colpito il buddismo. Cerca di superare la realtà che vuole fuorviarci e dà maggior senso della comunità, di condivisione e amore. Per me è stata la strada giusta oltre la menzogna”.

Elegantissimo, in completo scuro e camicia celeste, Richard l’inossidabile è tornato in Auditorium intorno alle 19, accompagnato dalla moglie Carey Lowell. “Buona sera Roma!”, ha salutato entrando in sala. Subito è arrivato uno scroscio di applausi, che lui ha ricambiato con un sorriso e un  “nice, very nice…”. Presentando il film di Malick ha poi detto: “rivedere ‘Days of Heaven’ dopo 33 anni sarà per me un’esperienza interessante, anche perché non l’ho mai visto con mia moglie. Sono curioso di sapere se mi trova carino…”.

Dopo la proiezione, l’attore ha parlato del suo rapporto con il regista. “All’epoca ero un po’ punk e un po’ disgraziato. Vidi il primo lavoro di Terry e ne rimasi incantato: ai miei agenti confidai che non sapevo se volevo fare cinema, nel caso avrei voluto lavorare con questo regista straordinario. Per i provini feci avanti e indietro con la moto per 5 mesi e quando, finalmente, arrivò la telefonata fu anche la svolta. Con gli altri due protagonisti (Brooke Adams e Sam Shepard, ndr) era un continuo ciak. Terence voleva l’autenticità e solo quando era soddisfatto si fermava. Una volta gli chiesi disperato cosa cercasse e lui, guardando la finestra, mi disse: ‘voglio qualcosa come il vento che fa volare le tende’. Non so il perché ma capii subito”. Rispondendo alle domande del pubblico, l’attore ha anche spiegato il rapporto di Malick con la Natura. “Aveva ingaggiato un’unità solo per girare le scene sulla natura, che nel film sono molto importanti perché rappresentano i nostri sentimenti, incontrollabili proprio come quelle forze”. “Rivedendomi sullo schermo – ha concluso – ho trovato molto difficile rapportarmi all’uomo che ero: mi è sembrato quasi un sogno, un’esperienza importante della mia vita che ancora mi porto dentro”.

I BAMBINI DI CAMP SUNDOWN

A chiudere il concorso della sezione Extra è stato il film documentario “The Dark side of the Sun” di Carlo Shalom Hintermann e Lorenzo Ceccotti. Prodotta da Citrullo International e Rainbow in collaborazione con Rai Cinema, la pellicola è un toccante viaggio nel mondo dei piccoli malati di XP, un male raro che rende i bambini estremamente sensibili alla luce del sole tanto da provocare gravi tumori alla pelle. Intervallando il documento alle belle scene di animazione, dense di significato e poesia, i registi seguono le vicende di questi bambini, costretti a vivere lontani dal mondo diurno e dai loro coetanei. Questo non avviene a Camp Sundown, un campo estivo nello Stato di New York creato dalla tenacia dei loro genitori e che raccoglie pazienti da tutto il mondo. Qui la vita è completamente rovesciata: si vive di notte e si dorme di giorno, in un’atmosfera colma di incanto.

“L’idea è nata leggendo un articolo del New York Post – ha spiegato Shalom Hintermann – la storia mi è sembrata da subito interessante. Anni dopo, io e Daniele Villa (titolare con il regista della Citrullo International, ndr), abbiamo cominciato a pensare un percorso produttivo. Come prima tappa abbiamo incontrato i fondatori del campo, iniziando un viaggio durato quasi 4 anni. Degli abitanti di Camp Sundown, ci ha colpito la forza con cui cercano di costruirsi un universo. Quindi da una parte la passione civile dei genitori, la lotta per regalare una vita normale ai propri figli e dall’altra il fatto che, nonostante i limiti e lo spettro della morte – l’aspettativa di vita è intorno ai 30 anni – tutti cercano quotidianamente di crearsi un’esistenza piena di relazioni. Un grande insegnamento che mi dato una percezione nuova su tante cose: una visione rovesciata del giorno e della notte, ma soprattutto un approccio diverso con la malattia e il lutto”.

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