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Venezia 68: Bertolucci premia Bellocchio, accoglienza fredda per la figlia di Michael Mann

Dal nostro inviato

“Non è una riconciliazione istituzionale, né un risarcimento ma un riconoscimento di una coerenza e di una libertà che va sempre riconquistata. Per me questo è il Leone d’Oro alla carriera”. Nel ricevere l’ambita statuetta dalle mani di Bernardo Bertolucci Marco Bellocchio appare visibilmente emozionato. Come non esserlo: alla 68ma Mostra del Cinema di Venezia oggi è il suo giorno, la coronazione di una vita costellata di successi. A premiarlo non è solo il Festival, ma anche  il pubblico della Sala Grande che gli fa sentire tutto il suo affetto accogliendolo con una lunga standing ovation e interminabili applausi.

Del resto la commozione del regista di Bobbio era facilmente prevedibile. Aveva detto oggi all’incontro con i giornalisti: “il fatto che sia Bertolucci a consegnarmi il Leone d’Oro più che onorarmi mi commuove”. Tra i due premi alla carriera (Bertolucci è stato recentemente omaggiato della Palma d’oro a Cannes), in passato c’era stata qualche divergenza. “Negli anni Settanta, tra di noi ci sono state delle rivalità – ha spiegato Bellocchio– ma non eravamo avversari, semplicemente abbiamo seguito dei percorsi diversi. Lui ha girato film che lo hanno portato al successo nel mondo, io sono rimasto in Italia. E tuttavia mi sento misteriosamente vicino a lui: abbiamo più o meno la stessa età, siamo nati negli stessi luoghi e siamo cresciuti con gli stessi autori”. Parlando del Leone d’oro, il regista di “Vincere” non ha nascosto la soddisfazione: “sarei un pazzo, un imbecille e un ingrato a non essere contento. E’ un riconoscimento per una carriera in cui ho sempre cercato di essere fedele alle mie idee e alle mie immagini, anche se nel tempo sono cambiato. Rivendico il mio cambiamento, di certo non sono più la stessa persona che ha girato ‘Nel nome del padre’”. Riferimento non casuale perché proprio sul grande successo del ’71 è caduta la scelta di Bellocchio per la proiezione che ha seguito la sua premiazione in Sala Grande. Metafora della condizione sociale e religiosa degli anni Sessanta, accolta con entusiasmo dalla stampa dell’epoca, la pellicola è qui presentata in una versione ridotta di quindici minuti. “Ho proposto io il film – ha concluso– sentivo che poteva essere migliorato già da allora. C’erano delle lunghezze soffocanti, le immagini potevano essere alleggerite, il ritmo reso più coinvolgente. Abbiamo fatto tagli piccoli e cospicui, ma il senso è rimasto lo stesso. Resta un film di forte ribellione, solo che penso sia migliorato”.

Accoglienza fredda per il thriller in concorso “Texas Killing Fields”, opera seconda di Ami Canaan Mann prodotta dal ben più noto padre Michael Mann (“Nemico pubblico”, “Heat – La sfida”). La regista porta sullo schermo una storia ispirata a fatti veri, con Sam Worthington nel ruolo del detective Mike Souder che, insieme al collega Brian Heigh (Jeffrey Dean Morgan) e all’ex moglie Pam (Jessica Chastain), indaga sul ritrovamento di una serie di giovani donne assassinate e poi gettate in un’area paludosa del Texas chiamata “Killing Fields”. “Non c’è gioia maggiore o esercizio intellettuale migliore che affondare in questo mondo criminale – ha detto Ami che a Venezia è venuta accompagnata dal padre – lo trovo affascinante e irresistibile”. Ex agente della DEA (Drug Enforcement Administration), lo sceneggiatore Donald Ferrarone ha passato diverso tempo a Texas City: qui, nel corso della sua collaborazione con le forze di polizia locali, ha cominciato a sentir parlare dei Killing Fields (dove dal 1969 sono stati gettati oltre cinquanta cadaveri di vittime di violenze sessuali) e ha conosciuto il vero detective Brian. “E’ stato uno shock incontrare un uomo che si era accollato la responsabilità di risolvere dei crimini irrisolti, mi ha colpito la sua spiritualità – ha raccontato Ferrarone – mi sono imbattuto in questa vicenda dieci anni fa, l’ho trovata unica e l’ho proposta a Michael”. E ha concluso la regista: “le immagini sui giornali di donne anche minorenni e i loro occhi mi sono rimasti impressi. Ho cercato di riprodurre questa storia con realismo, ho sentito la necessità di aiutare queste ragazze attraverso il mio racconto cinematografico”. Nel film anche la rivelazione Chloë Grace Moretz, che per il ruolo di adolescente problematica (l’attrice ha appena quattordici anni), si candida al premio “Marcello Mastroianni”.

Applausi non troppo convinti, infine, per il quarto film cinese in gara “Life without principle”, diretto dal maestro dell’action movie contemporaneo Johnnie To. L’azione si svolge attorno alle vite di tre persone diverse che non hanno nulla in comune: un’analista finanziaria costretta a vendere ai clienti titoli ad alto rischio per raggiungere gli obiettivi di vendita, un piccolo delinquente che spulcia gli indici dei futures nella speranza di guadagnare soldi facili, un’ispettore che rimane a corto di soldi quando la moglie versa la caparra per un appartamento di lusso. Un giorno spunta fuori una borsa con 5 milioni di dollari rubati, precipitando i tre in una situazione intricata che li costringe a interrogarsi su ciò che è giusto o sbagliato. “Viviamo in un mondo turbolento – ha scritto To nelle note di regia – per sopravvivere, la gente non può fare altro che stare al gioco. Per quanto ci si sforzi di seguire le regole, prima o poi si finisce per perdere una parte di sé stessi”.

Grande attesa per la cerimonia di domani, nel corso della quale verranno proclamati i vincitori del concorso ufficiale. Come da programma, sarà Vittoria Puccini a fare gli onori di casa. La partecipazione dell’attrice alla serata conclusiva era in forse a causa del grave lutto che nei giorni scorsi l’aveva colpita (la perdita improvvisa della giovane madre), ma oggi ha fatto sapere che, pur evitando i riflettori del red carpet, rispetterà il suo impegno di madrina.

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