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Venezia 71: protagonisti gli “Hungry Hearts” di Costanzo e il genocidio armeno di Fatih Akin

Dalla nostra inviata, Marilena Vinci. Quinto giorno.

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Venezia, 31 Agosto 2014 – Dopo “La solitudine dei numeri primi”, presentato alla Mostra del cinema di Venezia quattro anni fa, Saverio Costanzo torna in concorso al Lido con “Hungry Hearts”, interpretato da Alba Rohrwacher e Adam Driver.

Tratto dal libro “Il bambino Indaco” di Marco Franzoso, il film racconta, dopo un insolito incontro casuale, la storia d’amore di Jude e Mina. Lui è americano, lei un’italiana che lavora a New York. Quando la ragazza resta incinta i due decidono di sposarsi e iniziano così una nuova vita. Sin dai primi mesi Mina si convince di portare in grembo un bambino speciale ed il suo istinto materno le suggerisce di tenere il figlio lontano dall’inquinamento del mondo esterno e nutrendolo in modo vegano. Il bambino però non cresce ed è in pericolo di vita, così tra Jude e Mina inizia una battaglia sottorranea alla ricerca di una disperata soluzione in cui tutte le ragioni si confondono.

Come nel precedente “La solitudine dei numeri primi”, Costanzo costruisce un noir dell’anima, confermando un forte stile personale e un talento nel raccontare i lati oscuri dei personaggi con scelte visive interessanti. Un film apprezzato dalla critica, anche se con qualche dissonanza, che il pubblico potrà vedere in sala a gennaio 2015.

Presto le nostre video interviste al regista e ad Alba Rohrwacher.

Fatih Akin Venezia 71

Ha deluso molti invece il nuovo atteso film di Fatih Akin, regista degli apprezzati “La sposa turca” e “Soul Kitchen”, che ha presentato in concorso “The Cut”, melodramma sullo sterminio armeno della durata di 2 ore e 20 minuti.

Tiepidamente accolto alla proiezione stampa, il film racconta l’epopea di un uomo brutalmente separato dalla sua famiglia che, sopravvissuto all’orrore del genocidio armeno, viene a sapere dopo anni che le sue due figlie sono ancora vive. L’uomo decide così di ritrovarle e si mette sulle loro tracce. La ricerca lo porterà dai deserti della Mesopotamia e l’Avana alle desolate praterie del North Dakota. Protagonista del film è Tahar Rahim (“Il profeta”), che recita muto per la maggior parte del film.

“The Cut” conclude la trilogia su Amore, Morte e Diavolo di Fatih Akin. E’ un film epico, un dramma, un’avventura e un western tutti insieme, ma sconta una scrittura meccanica e scontata, segnando decisamente un passo indietro nella filmografia del talentuoso regista. Per Akin però è un film molto personale: “Nel tema esplora la mia coscienza – dichiara – e nella forma esprime la mia passione per il mezzo cinematografico”.

“Mi ci sono voluti sette-otto anni per prepararmi emotivamente al film. Qualcuno mi ha minacciato, ma sono cose a cui basta non dare troppo peso. Si tratta di piccole reazioni che non hanno importanza”, racconta Akin, di nuovo in concorso a Venezia cinque anni dopo “Soul Kitchen”, con un film scritto insieme a Mardik Martin, storico sceneggiatore e autore, tra gli altri, di “New York, New York” e “Toro scatenato”: “Quella di The Cut è una storia vera, che ci crediate o no”, afferma.

Il film riporta a galla la tragedia del genocidio armeno, troppe volte negata e taciuta: “C’erano alcune idee che volevo condividere con il pubblico, in particolare in Turchia. – racconta Akin – Volevo ci fosse empatia con il protagonista, o la storia. Per farlo era necessario ampliare il confine dell’identificazione, in modo di arrivare anche a coloro che negano il genocidio armeno, così da potersi identificare con il protagonista”. Il regista spiega anche il percorso “religioso” di Nazaret: “Prima credeva a determinati dogmi, ad una religione. Poi nella sua vita accade una tragedia, le cose lo portano a perdere la fede. Durante tutto il film il protagonista scopre la spiritualità, la speranza. Si libera dei dogmi e arriva all’essenziale, alla spiritualità: questo è il viaggio personale che ho compiuto anche io rispetto alla religione”.

Sulla discussa scelta di far parlare i personaggi armeni del film in inglese, Akin spiega: “L’utilizzo dell’inglese non è per questioni di marketing. Voglio aver controllo anche sui dialoghi, non parlo l’armeno. Anche Bertolucci ha girato ‘L’ultimo imperatore’ in inglese, stessa cosa ha fatto Polanski con ‘Il pianista’: la cosa essenziale è questa, quando dirigo i miei attori non voglio essere interrotto ogni cinque minuti da un coach che vada lì a riprenderli perché l’accento non va bene”.

Nel cast del film, anche l’attore armeno Simon Abkarian: “Il film di Fatih era quello che gli armeni stavano aspettando. La prima generazione ha dovuto sopravvivere, la seconda vivere, la terza reagire. Un film non basta, dobbiamo farne di più, ma c’è una lobby turca che quando può interferire con film come questo non si tira indietro”.

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SPECIALE
71. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia
27 agosto – 6 settembre 2014

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