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Venezia 68: “Ruggine”, quando l’infanzia incontra il Male

Dal nostro inviato

Interviste a Daniele Gaglianone, Filippo Timi e Valeria Solarino

Nella periferia di una città del Nord Italia, in una calda estate degli anni Settanta, un gruppo di ragazzini meridionali giocano a fare i grandi. Il loro regno è il Castello, due vecchi silos arrugginiti circondati da rottami e ferraglia, la lingua che utilizzano un insieme di dialetti a volte incomprensibili. Nel quartiere arriva un nuovo medico, il dottor Baldrini, un uomo elegante e colto a cui la modesta gente del posto si rivolge con soggezione e ammirazione. Solo i bambini, capitanati dal piccolo Carmine, riescono a percepire che sotto l’apparenza di una persona “perbene”, si nasconde un orco come quelli delle favole. Quando il dottore prenderà la sorellina del capo banda, però, lo scontro con il Male diventerà inevitabile.


Trent’anni dopo ecco tre dei ragazzini di quella banda alle prese con il quotidiano: Carmine passa la sua giornata a bere e a sputare veleno contro tutto e tutti, Sandro vive in un piccolo appartamento con il figlio di cinque anni e invece di lavorare gioca al “Drago nero”, Cinzia è un’insegnante di scuola media impegnata nella routine di uno scrutinio di classe. Tre vite apparentemente normali, eppure l’ombra di quell’estate maledetta non è svanita.

“Ruggine”, questo il titolo del lungometraggio diretto da Daniele Gaglianone con Filippo Timi nel ruolo del dottore, Valerio Mastandrea, Stefano Accorsi e Valeria Solarino in quello dei tre ragazzini divenuti adulti (i piccoli interpreti sono Giampaolo Stella, Giuseppe Furlò e Giulia Coccellato), ha aperto le Giornate degli Autori alla 68ma Mostra del Cinema di Venezia. Prodotto da Fandango e Zaroff Film in collaborazione con Rai Cinema, nelle sale italiane dal 2 settembre, il film è tratto dal romanzo Einaudi di Stefano Massaron. Al Lido di Venezia abbiamo incontrato il regista e parte del cast.

Gaglianone, come mai ha scelto un tema così duro?
Il libro di Massaron mi ha colpito per due motivi. Il primo è l’ambientazione, che ho sentito subito vicina perché, come i piccoli protagonisti, anch’io da piccolo mi sono trasferito in un quartiere di periferia del Nord dove si parlava un miscuglio di dialetti meridionali. Il secondo motivo è il personaggio del dottor Boldrini: la pedofilia è solo un aspetto del film, la storia parla soprattutto del rapporto con il Male, di cosa succede quando bussa alla tua porta e se vuoi salvarti sei costretto a scegliere tra soccombere e diventare violento. E’ la classica fiaba nera in cui un gruppo di ragazzini incontra l’orco: fino a quel momento sono solo bambini ma poi si trasformano. E’ anche una riflessione sul Potere, su cosa vuol dire combatterlo e vincerlo: quando trent’anni dopo ritroviamo i personaggi, il mostro non c’è più ma ha lasciato delle tracce con cui bisogna fare i conti.

Perché ha deciso di non mostrare la violenza così come accade?
Dal punto di vista creativo e del rapporto con il pubblico è più interessante lasciare che sia lo spettatore a completare il quadro visivo, e poi la violenza mostrata rischiava di diventare fuorviante e paradossalmente rassicurante. E’ come delegare al regista la responsabilità di creare la situazione, mentre nel mio film questa responsabilità ce la prendiamo tutti. Il punto di vista che ho deciso di adottare è vicino a quello dei bambini, che vedono e non vedono, avvertono il male ma non gli sanno dare un nome. Mi frulla in testa una frase di un letterato americano che dice: “il problema della vita è che solo da adulti capiamo ciò che da bambini riusciamo a sentire”. Ecco, la doppia dimensione del film, l’infanzia dei protagonisti alternata al tempo adulto, racconta proprio questo concetto: i bambini sentono e forse non capiscono, trent’anni dopo razionalizzano e continuano a sentire l’eco di ciò che hanno vissuto.

Il personaggio del dottor Boldrini appare spesso sopra le righe. Come l’ha costruito?
Non era mia intenzione inscenare false piste. Il film non è un giallo ma parla del potere e il dottore lo rappresenta perfettamente. Con Timi abbiamo lavorato in due direzioni: da una parte il personaggio cerca di controllarsi, dall’altra esplode anche se rimane sempre confinato in una sorta di congelamento, in bilico tra il grottesco e il demoniaco. Quante volte il potere del male si presenta chiaramente davanti ai nostri occhi? I bambini nella loro ingenuità riescono a percepire ciò che gli adulti non vogliono vedere.

Timi che cosa ne pensa?
Non mi piace sentir parlare di esagerazione o di interpretazione “sopra le righe”. Abbiamo voluto liberarci della buona, brava e giusta recitazione che annoia, per darci la possibilità di immaginare come i bambini possano vedere un mostro. E’ di una favola che stiamo parlando e nel raccontarla si possono utilizzare le corde shakespeariane, e Shakespeare non è Cechov ma sangue, carne e viscere. Il respiro del mio personaggio voleva comunicare una certa ansia che cresce, come in “Shining”, anche se io non voglio paragonarmi a Jack Nicholson. Abbiamo lavorato molto sul suono di questo respiro, che si è rivelato determinate per la caratterizzazione del dottore.

Gaglianone, qual è il significato dell’enigmatica scena contenuta nei titoli di coda?
Mi piaceva l’idea di ambientare questa scena in un luogo reale e concreto come la metropolitana, all’interno del quale l’atmosfera cambia rapidamente per diventare la parte di loro che viaggia sottoterra. Non sappiamo se da adulti i nostri tre protagonisti si incontreranno di nuovo oppure no: l’intenzione era di lasciare il finale in sospeso, tra realtà e sogno.

Solarino, il suo personaggio si svela tutto in un lungo incontro tra insegnanti. Come l’ha affrontato?
Si tratta di una piccola parte che paradossalmente ho trovato più difficile rispetto a quando mi viene affidato un personaggio intero. Daniele mi chiedeva di vivere la scena come un fatto quotidiano e nello stesso tempo percepire, a tratti, una presenza alle spalle, un’ombra che richiamasse quella ferita subita da bambina. Mentre giravamo non ricordo esattamente a cosa ho pensato: credo a qualcosa che mi fa paura, qualcosa di misterioso che non riesco a spiegarmi.

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