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Antonio Merone padre violento dei “Giochi d’estate”

Intervista ad Antonio Merone

Antonio Merone fa l’attore da un quarto di secolo. Nel suo palmares una lista infinita di performance teatrali come “Giulio Cesare” di Shakespeare e “Dispetto d’amore” di Molière, alcune esperienze nella fiction, ma soprattutto l’exploit al cinema con il caso “Un altro pianeta”, opera prima di Stefano Tummolini girata con soli mille euro e applaudita nel 2008 alle Giornate degli Autori di Venezia. Quest’anno l’attore è tornato sul grande schermo per regalarci un’altra bella interpretazione da protagonista, il padre violento di “Giochi d’estate” (Summer Games), lungometraggio italo-svizzero di Rolando Colla presentato fuori concorso (e accolto con una lunga standing ovation) all’ultima Mostra del Cinema di Venezia e al Toronto Film Festival.

Ispirato all’infanzia del regista, “Giochi d’estate” (già acquistato in Svizzera, Francia, Austria, Spagna e Germania, non ha ancora una distribuzione italiana) è un film sul ruolo sociale della famiglia, sui primi decisivi passi di due ragazzini alla ricerca della propria strada e, spiega Colla, sulla “forza oscura e incontrollabile che alberga in noi e ci allontana da una vita normale”. La struttura narrativa è incentrata sul confronto-scontro di due generazioni: la coppia adulta Vincenzo-Adriana (Antonio Merone e Alessia Barela) e la coppia dei dodicenni Nic-Marie (Armando Condolucci e Fiorella Campanella).

La storia è ambientata in Maremma, durante una breve vacanza al mare: Vincenzo è un operaio con difficoltà economiche che nei frequenti scoppi d’ira picchia la moglie; suo figlio Nic elabora la violenza del padre, che lo segna e lo traumatizza, nei giochi con gli altri ragazzi, imboccando anche strade pericolose al limite dell’autolesionismo. Cerca così di insegnare a Marie, che soffre per l’assenza del padre – la madre (Roberta Fossile) non le ha mai rivelato l’identità – a non provare alcun sentimento. Se l’incontro tra i ragazzi si risolverà in un primo amore, quindi in una speranza, la coppia adulta affonderà in una palude di incomunicabilità e violenza.

Merone, qual è il messaggio del film?
La coppia di ragazzini è speculare alla coppia adulta: se ci comportassimo più da fanciulli, con maggior candore e curiosità, forse impareremmo a comportarci meglio, a non offendere l’altro e a costruire dei rapporti più duraturi e sani.

E’ anche il suo pensiero?
Si, lo penso anch’io. Il mio personaggio è negativo ma è stato scritto senza esprimere alcun giudizio, con una grande pietas. E’ ispirato al padre del regista, un padre violento che picchiava la madre. Già dalla scrittura si sente una profonda verità: sono vicende vissute, sentite e poi elaborate. La scommessa con la regia era di non giudicare un uomo cresciuto con modelli cattivi, a cui nessuno ha insegnato a domare l’aggressività e che, in un momento di crisi economica come questo, non viene certo aiutato dalla società. La cronaca è piena di questi casi, basta sfogliare un quotidiano.

Come ha costruito il personaggio?
Ho compreso il personaggio sin dalla prima lettura e non ho avuto difficoltà ad essere violento. In famiglia non ho modelli di questo tipo e detesto la violenza fisica, ma ho un temperamento impulsivo e a volte posso esagerare con le parole. Dalla violenza verbale a quella fisica il passo è breve.

Che tipo di rapporto si è creato con il regista?
Abbiamo lavorato sull’improvvisazione per cinque settimane, anche per cercare l’antefatto della relazione tra Vincenzo e Adriana: abbiamo immaginato il primo incontro, il vissuto che non si vede ma si percepisce, e abbiamo molto giocato con i bambini. Dalla finzione siamo passati alla vita reale, arrangiando un pranzo con pochi soldi per esempio. Si parla di una famiglia operaia, gente semplice con grandi ristrettezze economiche che saranno causa di un disagio enorme.

E’ vero che Rolando Colla lascia molto spazio agli attori?
Lo spazio libero è durato fino alla fase delle prove, poi sono arrivati cinque bambini che bisognava gestire con pazienza e professionalità.

Si è ispirato a qualcuno che conosce?
L’osservazione delle persone è il mio pane quotidiano. Mi è stato chiesto di ingrassare di dieci chili, un aspetto non trascurabile perché ha cambiato il rapporto con il mio corpo, e ho imparato a strimpellare la chitarra. Vincenzo è un velleitario che a quarant’anni coltiva il sogno della musica: in una scena dice che sarebbe diventato un musicista se non si fosse “incastrato” nel ruolo di padre. Ecco, tutto questo mi ha aiutato. In più, ogni volta che preparo un personaggio, divento un maniaco: le unghie delle mani, per esempio, erano estremamente accorciate e mangiate, e la violenza era lì pronta ad uscire…

Ha scoperto qualcosa del suo carattere che non immaginava?
No no…ho lavorato venticinque anni in teatro e sono consapevole della mia aggressività, che so domare grazie ai buoni esempi avuti da ragazzo. Mi rendo conto, però, che in Italia non sempre disponiamo degli strumenti necessari a controllare certi comportamenti. La cosa grave è che se un uomo violento capisce i suoi errori e vuole migliorarsi, non c’è una struttura pubblica in grado di aiutarlo. E’ un lavoro che ognuno di noi dovrebbe fare: in fondo siamo animali, anche se viviamo in società.

Quanto l’ha aiutata l’esperienza in teatro per la costruzione del personaggio?
Il teatro ti dà un mestiere. E la capacità di replicare anche trenta volte una scena mantenendo la freschezza iniziale mi viene proprio dal teatro. Non a caso la mia concentrazione sale man mano che i tempi aumentano.

Ha trovato difficoltà con i tempi veloci della fiction?
Le mie esperienze importanti con la televisione risalgono agli anni Novanta. Parlo di sceneggiati come “La Piovra” o “Il Mastino”, quando in Italia le produzioni del piccolo schermo si contavano sulle dita di una mano. Adesso, a parte qualche piccola partecipazione, la tv non cerca me e io non cerco lei. Certo ci sono delle bellissime fiction e però il tipo di prodotto e la grandezza dell’immagine ti portano a lavorare sull’istinto rimanendo sempre in superficie. Insomma: in tv la costruzione del personaggio con dovizia di particolari non paga, mentre il cinema è carne viva.

In “Giochi d’estate” il suo personaggio ha uno spiccato accento napoletano. Lei che rapporto ha con la sua “napoletanità”?
Ai miei tempi si studiava recitazione per tre anni, si prendeva consapevolezza del proprio dialetto e poi si imparava a cancellarlo completamente. Il ché non vuol dire che bisogna rinnegarlo, soltanto va usato al momento giusto. Quando a teatro ho interpretato Shakespeare o Molière il napoletano non mi è mai servito, mentre al cinema mi è tornato utile diverse volte. Spero che in futuro mi offriranno sempre più occasioni per cambiare idioma.

Con quale spirito è tornato a Venezia per la seconda volta?
Con l’emozione e l’orgoglio di aver partecipato a un film che merita una vetrina così importante. Nel 2008 è stato un sogno – “Un altro pianeta” era una specie di Cenerentola del Festival – questa volta ho sentito una maggiore responsabilità. Sono molto soddisfatto della bella accoglienza, ma soprattutto spero che la pellicola possa far riflettere sul buco organizzativo dell’Italia rispetto al problema delle violenze familiari.

Prossimi progetti?
Ultimamente ho girato il secondo film di Tummolini, “L’estate sta finendo”, dove ho ritrovato Lucia Mascino (sua partner in “Un altro pianeta”, ndr). E il 28 settembre sarò a Catania per presentare la nona edizione del Trailers FilmFest, il festival che premia i migliori trailer italiani e internazionali dell’anno e le rispettive case di distribuzione.

Il ruolo del cuore?
Sicuramente il Salvatore di “Un altro pianeta” mi ha dato la possibilità di un confronto enorme perché mi ha permesso di girare il mondo con tanti Festival, dove ho seguito le proiezioni e mi sono confrontato con il pubblico. E’ un personaggio che ho contribuito a scrivere e che mi ha fatto crescere, anche se la fatica e il pressing psicologico affrontati con Vincenzo sono stati molto forti. Ecco, credo che questi due personaggi mi rimarranno a lungo stampati dentro.

Il personaggio che vorrebbe interpretare?
Qualcuno che perde l’equilibrio mentale e abbraccia la follia: è la mia lotta di ogni giorno, con un personaggio folle potrei finalmente esorcizzare i miei mostri.

Ha un attore-mito?
Non ho miti ma penso che in Italia ci siano degli attori davvero bravi. Peccato che il nostro cinema si fossilizzi troppo su alcuni volti “di moda” trascurandone altri di gran talento.

Il suo sogno?
Interpretare dei personaggi cinematografici sempre diversi e poterli costruire in modo “maniacale”, come sono io. Per noi attori è il più bel divertimento, anche se siamo prigionieri del nostro corpo: nessuno mi darà mai il ruolo di un nordico o di un americano, se sono alto e ho quarant’anni non posso interpretare un ventenne basso. In teatro non è così: il gioco del travestimento si usa poco e però si può ancora dare voce a caratteri, estrazioni sociali e gestualità completamente diversi.

 

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