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“The Dark Side of the Sun”, viaggio nell’incanto dei bambini lunari

Intervista a Carlo Shalom Hintermann, Lorenzo Ceccotti e Daniele Villa.

Lo Xeroderma Pigmentosum o XP è una malattia rarissima che colpisce bambini e ragazzi, costringendoli a vivere lontano dal sole e dai coetanei “normali”. La loro pelle è estremamente sensibile ai raggi ultravioletti tanto che, anche una breve esposizione alla luce diurna, può provocare gravi ustioni e pericolosi tumori.

Nel 1995, i genitori di una bambina affetta dal male, Karen e Dan Mahar, hanno fondato la XP Society, un’associazione no-profit con lo scopo di dare un aiuto concreto alle famiglie con figli malati. Così è nato Camp Sundown, un campo estivo nello Stato di New York che accoglie pazienti e ricercatori da tutto il mondo. Qui la logica del quotidiano è completamente rovesciata: si vive di notte e si dorme di giorno, in un’atmosfera colma di incanto.

Un documentario di Carlo Shalom Hintermann e del regista d’animazione Lorenzo Ceccotti, “The Dark Side of the Sun”, ci accompagna ora nel mondo dei bambini lunari. Per raccontarne, tra documento e disegni animati, la vita nell’oscurità. E per toglierli dall’oscurità. Prodotta da Citrullo International e Rainbow in collaborazione con Rai Cinema, già in concorso nella sezione Extra del Festival Internazionale del Film di Roma, la pellicola aprirà la quinta edizione del Dei Piccoli Filmfestival (Roma, 15 – 22 dicembre), con proiezioni giovedì 15 e sabato 17 dicembre.

Hintermann, come è venuto a conoscenza della malattia?
Leggendo un articolo del New York Post che parlava di Camp Sundown. Da subito la storia mi è sembrata interessante, ma ho lasciato passare un po’ di tempo perché volevo cercare l’approccio giusto. Qualche anno più tardi, io e Daniele Villa (fondatore con il regista di Citrullo International, ndr) abbiamo cominciato a costruire un percorso produttivo. Come prima tappa abbiamo incontrato i fondatori del campo, iniziando un viaggio durato quasi 4 anni.

Quanti sono i casi di XP in Italia?
In tutto saranno una decina. Uno è quello di Fatima, una ragazza di origini marocchine che vive vicino a Torino e di cui parliamo nel documentario. Nella sua famiglia ci sono altri due casi, la sorella e il fratello più piccoli.

Che cosa l’ha colpita di questi ragazzini e dei loro genitori?
Sono persone straordinarie: non tanto per la condizione in cui vivono, ma per la forza e la tenacia con cui cercano di costruirsi un universo, una vita comunitaria. Da una parte mi ha colpito la passione civile dei genitori, la lotta quotidiana per regalare una vita normale ai propri figli – combattere con le scuole affinché vengano oscurati i vetri, permettere ai bambini di frequentarle – dall’altra il fatto che, malgrado i limiti e lo spettro della morte, perché le aspettative di vita non vanno oltre i trent’anni, tutti si danno da fare per avere una vita piena. Per me è stato un grande insegnamento, una percezione nuova su tante cose: la visione rovesciata del giorno e della notte, ma soprattutto un approccio diverso con la malattia e con il lutto.

Ceccotti, la caratteristica principale del film è il passaggio continuo dal documento alle scene di animazione. Com’è stato costruito?
L’idea nasce da Carlo, che ha deciso di coinvolgermi da subito. Avevamo lavorato in altri progetti e dunque eravamo già rodati. Il documentario rappresenta la realtà così com’è, l’animazione invece mette in scena le angosce, i desideri e i sogni dei bambini. Ciò che vive nella mente e nel cuore dei piccoli malati e che difficilmente si capisce dalle riprese del quotidiano.

Hintermann, le scene di animazione sono piene di poesia. In una di esse, per esempio, c’è una voce fuori campo che dice: “voi che vivete di giorno avete il nero dentro di voi, i vostri cuori sono neri, la luce entra nel vostro corpo solo per un’improvvisa ferita”.
L’ho scritta io ma viene dal contatto diretto con i bambini. Spesso pensiamo che vivere di notte sia un modo per nascondersi. In realtà è proprio in quei momenti che viene fuori la rabbia, la voglia di gridare: “guardateci con altri occhi!”. Ecco, la frase vuole essere un’accusa a chi vive di giorno, perché quel vivere di giorno vuol dire ignorare ciò che rimane nell’ombra, in questo caso la malattia. In fondo ciò che conta di più, per queste persone, è l’essere considerate “normali”.

Uno degli animatori del Campo parla di “accettazione” come parola chiave di tutto.
E’ anche l’insegnamento principale che abbiamo ricevuto da questa esperienza. In passato, Dan Mahar e sua moglie hanno ingoiato tanti bocconi amari: prima di costruire Camp Sundown, svolgevano le attività in vari alberghi e però, dopo qualche tempo, uno dei gestori ha fermato tutto. La clientela si lamentava, pare che i bambini fossero “inquietanti”. Dan, allora, ha deciso di cercarsi un luogo dove tutti i malati di XP potessero vivere liberamente e senza confronti dolorosi.

Come ha trovato i finanziamenti?
Con le donazioni private, spesso mettendo del denaro di tasca propria. Dan faceva il postino, Karen lavorava come cameriera: hanno abbandonato tutto per dedicarsi al sogno del Campo. La decisione è stata presa una volta che, dopo una nevicata, la loro bambina aveva chiesto di andare sullo slittino. Vedendo la piccola correre da sola, alle 4 di mattina, Dan ha detto basta. Sua figlia non poteva crescere da sola: aveva il diritto di giocare con tutti gli altri bambini. Da lì, passo dopo passo e grazie agli appelli sui giornali, sono arrivate le varie offerte: una piuttosto consistente, e tuttora anonima, ha permesso l’acquisto del terreno.

Villa, quali sono stati i problemi produttivi?
Citrullo International è un vero e proprio gruppo di lavoro e la decisione di imbarcarsi in questa grande avventura è arrivata in modo naturale. C’è stata una corrispondenza etica tra tutti noi, un atteggiamento simile nei confronti del cinema e della realtà. Nessuno voleva utilizzare questa storia per piegarla a qualcosa di sensazionalistico! Al contrario, il bisogno di normalità di queste persone è diventato anche una lotta sul piano produttivo: televisioni e co-produttori chiedevano di evidenziare la diversità come qualcosa di mostruoso, come se i bambini fossero vampiri. Ma noi abbiamo rifiutato ogni proposta di questo tipo, difendendo il documentario così come Carlo l’aveva concepito. Certo, le nostre convinzioni hanno comportato un grande sforzo economico…

Quanto avete speso?
Intorno ai 500.000 euro. Il primo là è arrivato dagli aiuti europei e da Rai Cinema, che ci ha dato credibilità a livello internazionale. Poi è arrivata la televisione giapponese, quella danese e quella finlandese. Infine, l’aiuto di Iginio Straffi  (patron di Rainbow, ndr) è stato determinante:  grazie a lui siamo riusciti a completare il documentario nel migliore dei modi, senza imposizioni esterne e in piena autonomia. Il suo sostegno è di spessore non solo per il contributo economico, ma anche perché rappresenta un investimento su chi sta crescendo nel campo dell’animazione. Un gesto molto forte, che dimostra come in Italia ci siano ancora realtà vive, che non si barricano dietro alle pastoie di un sistema puramente commerciale.

Quale sarà il percorso distributivo del documentario?
Sicuramente si vedrà nei canali televisivi che hanno partecipato alla produzione: per noi la distribuzione è molto importante perché è legata a un discorso di visibilità per i malati di XP. In ogni modo, adesso stiamo lavorando ad un percorso nei teatri, in Italia e negli Stati Uniti.

Hintermann, gli spunti per un lungometraggio di finzione sono tanti. Ci avete già pensato?
La storia dei bambini affetti da XP è di per sé eccezionale, in un racconto cinematografico avrebbe una forza gigantesca. Certo, a volte ci ho pensato, ma il primo passo da fare era il documentario. Non è detto che prima o poi non ne venga fuori un film di finzione.


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