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“This must be the place”, Sorrentino alla scoperta dell’America (e di sé stesso)

Video conferenza stampa con Paolo Sorrentino

And you’re standing here besides me/I love the passing of time/Never for money/Always for love/Cover up say goodnight…say goodnight/Home – is where I want to be/but I guess I’m already there/I come home – she lifted her wings/Guess that this must be the place (E sei qui vicino a me/Amo lo scorrere del tempo/Mai per soldi/Sempre per amore/Copriti e dai la buonanotte…dai la buonanotte/Casa – è dove vorrei essere/ma sento di trovarmi già lì/vengo a casa – lei alza le ali/Sento che questo deve essere il posto). Nel testo di “This must be the place”, la canzone dei “Talking Heads” che dà il titolo all’ultimo film di Paolo Sorrentino con Sean Penn straordinario protagonista (già in concorso a Cannes 64 e dal 14 ottobre in 300 sale con Medusa), c’è tutto il senso di questa umanissima storia.

Il due volte Premio Oscar veste i panni di Cheyenne, rock star in pensione anticipata che vive nel suo piccolo castello di Dublino. Ha cinquant’anni suonati ma continua a conciarsi come se ne avesse venti – labbra rosse, occhi bistrati, cerone bianco in faccia, una foresta nera in testa e grossi anelli per ogni dito (il look è ispirato a Robert Smith dei Cure) – mentre il tempo scorre piatto tra una giocata alla pelota con l’energica moglie (l’ottima Frances McDormand), che gli sta accanto da 35 anni e lo rassicura (“Chi fa l’amore come te non può essere depresso”), una passeggiata al vicino centro commerciale con l’amica dark (Eve Hewson, figlia di Bono Vox) e una visita sulla tomba di una coppia di fan, suicidi per aver preso la sua musica troppo sul serio. Ad accompagnarlo c’è sempre qualcosa da trascinare svogliatamente, un carrello della spesa o un trolley da viaggio, metafora del fardello di situazioni irrisolte che si porta appresso da anni.

Da New York arriva la notizia del padre morente: Cheyenne, che non ci parla da trent’anni (“a 15 anni ho deciso che non mi voleva bene”), parte senza volerlo e però, una volta di fronte alla morte, piange sinceramente. Rovistando tra le carte del genitore, un anziano ebreo sopravvissuto a Auschwitz, scoprirà che ha passato tutta la vita a inseguire il suo aguzzino per vendicare le umiliazioni subite. Adesso tocca a lui, al cinquantenne mascherato da adolescente che non sa nulla dell’Olocausto, continuare quella caccia ossessiva, forse la causa dell’incomunicabilità con il padre. Comincia così un appassionante road movie scandito da struggenti ballate rock (David Byrne firma la bella colonna sonora e regala un prezioso cameo), che dal Michigan al Nuovo Messico all’Utah, ci porta a ri-scoprire i tanti luoghi della cinematografia americana (grandi strade polverose, vecchi motel, stazioni di servizio e bar di periferia) attraverso lo sguardo stralunato di Cheyenne-Penn-Sorrentino.

Elegante e stilisticamente perfetto, con uno script intelligente e mai banale, il film racconta un personaggio ironico e toccante senza scadere nella caricatura. Sean Penn aggiunge le sfumature non scritte e dimostra una maestria attoriale non comune: dall’andatura lenta e catatonica (“Per lui camminano così i ricchi che si sentono in colpa per esserlo diventati”, rivela Sorrentino) alla voce in falsetto, fino allo sbuffo infantile che ogni tanto utilizza per liberarsi di una ciocca ribelle, tutto è lì al posto giusto per offrire un ritratto sorprendente e mai eccessivo. Assolutamente riuscita anche la scelta delle musiche: nelle parole come nelle melodie ben esprimono il viaggio fisico e intimo che Cheyenne intraprende per ritrovare o trovare il posto giusto dentro di sé.

Peccato che Sorrentino, mettendo troppa carne al fuoco – la ricerca di sé stessi, il mancato rapporto padre-figlio (con qualche accenno pudico all’esperienza personale), l’Olocausto, il dolore e la vendetta – finisce per sfiorare tutto senza approfondire nulla, come invece ci si aspettava. Peccato che il racconto sia costruito per episodi, a volte slegati l’uno dall’altro e non tutti riusciti. E peccato che a forza di rallentare il ritmo per rendere al meglio la noia del personaggio, a tratti si annoia anche lo spettatore.

Girato interamente in inglese con un budget di 30 mila dollari, co-prodotto da Italia-Francia-Irlanda, “This must be the place” è tuttavia un film da vedere, se non altro per l’immensa bellezza delle immagini e la straordinaria bravura degli attori. Un solo avvertimento: chi ha amato i precedenti “Le conseguenze dell’amore ” e “Il Divo”, forse, uscirà dalla sala un po’ deluso.

THIS MUST BE THE PLACE - conferenza stampa - WWW.RBCASTING.COM

Alcuni commenti della critica:

“La forza delle immagini e degli spazi prende il sopravvento su tutto (…) ma l’originalità dello sguardo a volte perde un po’ di sorpresa. Negli incontri, nella scelta dei luoghi, nei movimenti di macchina hai la sensazione che lo sceneggiatore possa sopravanzare il regista, che la testa sia più forte del cuore. Il film (…) ogni tanto regala squarci di lacerante bellezza ma a volte rischia di soffocare i suoi oggetti, ingabbiandoli troppo nei quattro lati dello schermo”.
Paolo Mereghetti, Corriere della Sera 

“Sorrentino riesce a creare un itinerario americano sorprendente, luoghi e persone che abbiamo visto in tanti altri film ma visti con uno sguardo nuovo, profondo”.
Natalia Aspesi, la Repubblica

“Sorrentino conferma il suo indiscutibile valore di cineasta di caratura internazionale, la maestria tecnica, l’inconfondibile impronta autoriale. Pure se lasciata in uno spazio non suo, già congelato nella memoria, esplorato in lungo e in largo. (…) E’ come se la poetica del regista non riuscisse a fondersi fino in fondo con il movimento dell’On the road. (…) Le due anime si fondono generando un paradosso: un film sul movimento senza vero movimento. Un quadro vivo prigioniero di una cornice. Bello da vedere, ma leggermente ingolfato”.
Gianluca Arnone, Cinematografo.it

“Sorrentino si è sempre dimostrato molto bravo a gestire attori-istrioni, ma qui il risultato di questo incontro tra individualità ingombranti è addirittura iconico: Cheyenne è un irresistibile alieno che attraversa paesaggi e atmosfere da road movie, ma è anche uno dei personaggi più umanamente piecevoli che siano mai toccati in sorte a Sean Penn. Analogamente, ‘This must be the place’ ci sembra il film più positivo e solare nella filmografia di Sorrentino”.
Alessia Starace, Movieplayer.it

 

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