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La lezione imparata nello Utah

 

Avete presente il film cult di John Landis “The Blues Brothers”, dove ai fratelli Jake e Elwood Blues era praticamente permesso di tutto, visto che si sentivano in missione per conto di Dio? E’ più o meno quello che è successo a noi, quando ci siamo messi in macchina, abbiamo fatto il pieno, inforcato gli occhiali da sole, e deciso di raggiungere lo Utah. In questo piccolo Stato Americano ci aspettavano alcuni Nativi Americani per poter alloggiare nei loro rifugi, ma la loro unica raccomandazione era quella di presentarci prima del tramonto (ore 19:00) per motivi che, al dire il vero, non abbiamo ancora capito.

La meta era ambiziosa: circa 750 km da fare in 8 ore, con un limite di velocità massima di 100 km/h e una temperatura esterna proibitiva, anche per gli pneumatici della nostra auto. Eravamo talmente concentrati nel perseguire il nostro obiettivo, da non accorgerci dei primi segnali che dovevamo cominciare a saper gestire:

Avevamo fame. Abbiamo mangiato la polvere rossa dei canyon, centinaia di semi di girasole ed improbabili panini presi nelle sperdute e troppo poco frequenti gas station.

Avevamo sete. L’acqua comprata (4 dollari per un litro, più costosa del petrolio) diventava immediatamente troppo calda, ed era praticamente imbevibile.

Ci mancava una guida. Il navigatore satellitare non riusciva a starci dietro (il modello della Hertz chiamato “NeverLost” e subito da noi ribattezzato “ForeverLost”) si ostinava a consigliarci percorsi facili ma troppo lenti.

Cominciavamo ad andare fuori tempo massimo: il limite di velocità imposto dalle leggi americane era per noi (italiani) troppo severo.

Ma nonostante questo la nostra piccola macchina macinava chilometri, attraversava vallate e canyon, uno dopo l’altro. Eravamo concentrati, avevamo un obiettivo e nessuno al mondo poteva distoglierci dal perseguirlo. La fame e la sete potevano aspettare, le mappe cartacee erano meglio del super tecnologico GPS, e per quanto riguarda la velocità, abbiamo deciso di spingere di più sul GAS, sfidando i temibili sbirri dello Utah (ma non erano del Nevada?). Ci sentivamo veramente come i Blues Brothers: nessuno avrebbe mai potuto fermarci. O no?

Forse no. Perchè quello che sarebbe successo da quel momento, ha veramente dell’incredibile. Dietro la solita curva del solito Canyon c’era ad aspettarci la prima delle meraviglie che ci avrebbe costretto a fermarci per ammirarla e fotografarla: la diga del Glen Canyon

 

 

Un senso di vertigine e stupore ci hanno atterriti e ammutoliti. I minuti persi per le foto erano troppi, e ci siamo subito promessi di non fermarci più, per non rischiare lo scalpo dai nativi americani che ci aspettavano. Siamo ripartiti, quando dopo 30 kilometri, un nuovo scenario si prospettava ai nostri occhi sempre più increduli.

 

 

Ci siamo quindi fermati nuovamente: altri minuti tolti alla nostra tabella di marcia, anche grazie al fatto che i nostri temibili sbirri dell’Arizona (ma non erano dello Utah?) ci hanno sopresi al centro della strada con due treppiedi assolutamente necessari per le nostre foto.

Dopo aver riavuto i documenti, siamo ripartiti sempre più in ritardo ma con la incoscente presunzione di riuscire ancora nel nostro obiettivo. Pertanto il GAS sempre più a tavoletta, ci ha portato in uno nuovo scenario, come in una sorta di mondo parallelo, consapevoli di una sola certezza: chiunque stesse giocando contro di noi, lo stava facendo con armi improprie: come uno straordinario arcobaleno completo, che abbracciava con colori saturi e contrastati almeno un paio di stati americani. Rifermiamo la macchina, riprendiamo i nostri treppiedi e li ripiantiamo al centro della strada, questa volta controllandoci bene a vicenda che non arrivassero i maledetti sbirri (di qualunque stato fossero). Ormai era troppo tardi, ci chiedevamo increduli cosa altro poteva accaderci per impedirci di arrivare a destinazione nei tempi prefissati. La risposta non si è fatta attendere, dopo un paio di curve, l’arcobaleno dai colori saturi e contrastati, si è sdoppiato in due.  Non credevamo ai nostri occhi stanchi e pieni di polvere rossa, pensavamo che qualcuno, una entità non ben definita, si stesse prendendo gioco di noi, come in una sorta di “scherzi a parte” americano.

 

 

Era tardissimo, dovevamo fare in fretta: mancavano solo due ore ed eravamo ancora troppo lontani, quando il riverbero del tramonto che cominciava a farsi notare, ha infuocato una vallata con lo sfondo della monument valley: ci siamo sentiti catapultati in uno dei tanti film western ambientati da queste parti, pronti a fare il tifo -ovviamente- per i nativi americani (non fosse altro che ci stavano aspettando):

 

 

Fine degli “imprevisti”, siamo ripartiti a tutta velocità verso il rifugio dei Nativi, incredibilmente in tempo: erano le 19.05.

Ma al rifugio non c’era più nessuno.  Dove erano finiti? possibile che i Nativi non ci avessero aspettato per soli 5 fottuti minuti? Delusi del finale che si stava per prospettare, ci rimettiamo in macchina alla ricerca di un qualsiasi motel della zona. Solo quando lo troviamo e ci sistemiamo alla meglio, capiamo cosa era accaduto. Infatti quando il proprietario del motel ci avvisò che il ristorante era già chiuso protestammo perchè il cartello della cucina indicava come orario di chiusura le 22.00 e i nostri orologi segnavano solo le 21:15. Entrando nello Utah, eravamo passati in un fuso orario differente: un’ora in più.

Con questa esperienza abbiamo imparato due lezioni: la prima è che lo Utah porta un’ora in più rispetto all’Arizona. La seconda è probabilmente la più importante: a volte la meta che ci prefiggiamo da soli è meno interessante del percorso che “attende” ognuno di noi.

 

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