Intervista esclusiva a Gianluca Arcopinto
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I filmmaker lo chiamano il Don Chisciotte del cinema italiano per la sua vocazione naturale a lottare contro i draghi e i mulini a vento, ovvero a buttarsi anima e corpo in produzioni sui cui nessuno scommetterebbe un soldo. Quando gli chiedo se si riconosce nell’eroe di Miguel de Cervantes, lui sorride e annuisce. “Don Chisciotte era incosciente – dice – e forse anch’io in certi casi lo sono, anche se ho sempre avuto l’accortezza di non fare il passo più lungo della gamba. In vent’anni di attività non mi è ancora successo di rovinarmi per un film, e credo non accadrà mai. Mi priverei di tanti altri progetti che sono la mia spinta a vivere e lavorare con serenità”.
Gianluca Arcopinto, produttore, distributore, regista di documentari, docente al Centro Sperimentale di Cinematografia, scrittore e qualche volta anche attore, si è sempre distinto per la libertà e il coraggio delle sue scelte. Da quando ha fondato la prima società di produzione, l’Axelotil, “indipendenza” e “autonomia” sono le sue parole d’ordine. Uno dei primi progetti è stato “Portami via” di Gianluca Maria Tavarelli, l’ultimo è “Ruggine” di Daniele Gaglianone. In fase di montaggio, la pellicola è co-prodotta da Fandango (che si occuperà anche della distribuzione) e punta a una sezione collaterale di Cannes. “Si tratta di un noir con tre bambini protagonisti e Filippo Timi co-protagonista – spiega il produttore – da grandi hanno i volti di Stefano Accorsi, Valeria Solarino e Valerio Mastandrea”. Tra Tavarelli e l’ultimo Gaglianone, Arcopinto ha prodotto e distribuito almeno un centinaio di lungometraggi che gli hanno fatto scoprire talenti come Matteo Garrone, Luca Miniero, Paolo Genovese, Eugenio Cappuccio, Vincenzo Marra, Salvatore Mereu, Francesco Munzi e Gianni Zanasi.
Romano, classe 1959, papà impiegato e mamma casalinga, si appassiona al mondo della celluloide fin da bambino, grazie al padre che ogni sabato pomeriggio lo porta al cinema. I genitori lo vorrebbero medico, ma lui fa di testa sua e dopo il liceo si iscrive al corso di produzione del Centro Sperimentale di Cinematografia (“di tutti i corsi era il meno inflazionato”, spiega). L’obiettivo iniziale è la regia, poi però cambia idea. “Mi rendo conto quasi subito di non avere le caratteristiche giuste – racconta – il regista deve possedere un mix di costanza e cattiveria, io invece non sarei mai capace di scendere a qualsivoglia compromesso. Purtroppo, chi dirige un film è anche l’elemento più fragile del sistema”.
Il futuro campione di cinema indie sceglie quindi la sua strada: prima come organizzatore per piccole società indipendenti, poi come produttore esecutivo di Fandango, dove lavora dal 1991 al 2000. Nel frattempo nascono due società: Axelotil, che fonda nel 1989 con Luca Di Benedetto, e Pablo Film, che inizia la sua attività nel 1998. Come miglior produttore italiano, negli anni ha ottenuto una candidatura al David di Donatello (2008, “Sonetaula”) e cinque ai Nastri d’Argento (2006 “Saimir”, 2004 “Ballo a tre passi”, 2002 “Incantesimo napoletano”, 1998 “Il caricatore”, 1996 “Nella mischia”). Tra gli altri premi ha vinto il Sacher d’Oro 1996/97 per “Il caricatore”, il Globo d’Oro 2008 per “Sonetaula” e il F.I.C.E. come miglior produttore del 2010.
Incontro Arcopinto in un caffè del quartiere Prati. Nonostante il gran freddo arriva in moto: giubbotto e pantaloni sportivi, capelli scurissimi e arruffati. L’impressione fisica è quella di un uomo pratico, quasi spartano, che non ama le parole. Quando iniziamo a parlare della sua storia, però, cambia tutto: gli si illuminano gli occhi e mi accorgo che adora comunicare, soprattutto quando l’argomento è la Settima arte. Si vede che è un idealista: è orgoglioso di poter dimostrare che “un altro tipo di cinema si può fare”, mentre in politica non nasconde di rimpiangere il vecchio Partito Comunista. Mi parla subito dei suoi nuovi progetti, “Ruggine” e tre nuovi film: l’opera prima “Cavalli” di Michele Rho, realizzata con il fondo del Ministero, Rai Cinema e Lucky Red, “Guerre silenziose” di Rodolfo Bisatti e “I resti di Bisanzio” dell’esordiente Carlo Michele Schirinzi. Poi gli chiedo di “Cinema Autonomo”, la collana di dvd che ha curato con la casa editrice DeriveApprodi e l’intervista comincia.
Com’è nata l’idea della collana?
Dalla volontà di cercare spazi per quei prodotti che non entrano in maniera prepotente sul mercato. Si tratta di cinque dvd e due libricini. Il primo cofanetto è già in libreria e contiene “Pietro”, il film di Gaglianone che l’anno scorso ha debuttato al Festival di Locarno. E’ uscito in sala con Lucky Red, quindi non ha avuto una cattiva sorte, ma meritava anche una distribuzione in home video. Era un po’ di tempo che pensavo a questo progetto: dopo un dibattito sul cinema autonomo, ho cominciato a credere che una collana sull’argomento poteva avere un senso. L’ho proposta alla casa editrice e dopo qualche mese di chiacchiere è nata.
Anche gli altri film della collana sono usciti nelle sale?
Solo il prossimo, “Palabras” di Corso Salani. Per “Tarda estate” di Antonio Di Trapani e Marco De Angelis è previsto un esperimento: quando uscirà il dvd organizzeremo un tour nelle sale, in modo da abbinare la presentazione al cinema e in libreria. Gli altri due lavori sono documentari: “Di mestiere faccio il paesologo” di Andrea D’Ambrosio e “Rata nece biti” di Gaglianone, che l’anno scorso ha vinto il David di Donatello.
Che cosa significa, per lei, fare cinema autonomo?
E’ una definizione che ho voluto dare a un certo tipo di cinema per distinguerlo da quello indipendente. Oggi tutti si definiscono “indipendenti”: la parola significa “non dipendente”, eppure la maggior parte del cinema italiano dipende dallo Stato, dalla televisione o da entrambi. Io cercavo una definizione diversa, qualcosa che riportasse ai vecchi temi dell’autonomia. Insomma fare cinema autonomo significa essere “indipendenti” nel vero senso del termine, vale a dire lavorare in totale libertà, senza committenti e senza compromessi.
Il cinema autonomo è anche un modo di essere?
Probabilmente sì. La forza dell’essere autonomi è anche nella libertà di non fare se non ci sono le condizioni, pur rimanendo convinti che si deve fare. Del resto non posso pensare che le cose cambino! Se la collana andrà bene accadrà quello che è successo a “Pietro”: è uscito nelle sale con dignità, ha incassato una cifra ridicola rispetto agli altri film e come home video non registrerà grandi numeri. Ma io ne ero consapevole, sono orgoglioso di averlo fatto e se tornassi indietro lo rifarei.
Ha dichiarato di aver prodotto almeno una trentina di film senza l’aiuto dello Stato. Come fa a sopravvivere?
Di certo non sono diventato ricco. La mia fortuna è stata quella di riuscire a fare il lavoro che amo percorrendo una strada doppia: da una parte ho lavorato come produttore esecutivo per altre società, dall’altra ho investito in progetti considerati impossibili che qualche volta hanno portato dei risultati. Il bilancio di un produttore come me va giudicato nell’arco di un lungo periodo: puoi vincere e puoi perdere. A volte una perdita può anche trasformarsi in vittoria, perché magari ti fa scoprire un nuovo talento che rimane con te e, nel tempo, ti fa recuperare il perduto. In più, ho alternato film assolutamente indipendenti ad altri più strutturati. Alla fine non ho vinto lo scudetto ma nemmeno sono retrocesso in serie B.
Nei suoi film si vedono quasi sempre attori poco conosciuti. Per “Ruggine”, invece, ha puntato sui volti del momento.
E’ stata una scelta mia e del regista, più che di Procacci. C’è l’augurio che con questo cast Gaglianone sia visto un po’ di più. Non credo che arriveremo a incassi milionari, ma di certo il pubblico sarà più curioso.
Quando è prevista l’uscita al cinema?
Dipende dal percorso festivaliero che seguirà, perché un film di Gaglianone non può prescindere da un Festival. In teoria potremmo essere pronti per Cannes, anche se quest’anno è molto affollata.
Com’è nato il rapporto con Gaglianone?
Daniele è l’unico regista a cui sono rimasto legato sin dall’inizio. Prima di conoscerlo mi capitava spesso di vedere i suoi corti al Festival di Torino. I primi tempi ci siamo un po’ inseguiti, poi lui ha preso il coraggio a quattro mani e mi ha detto: “voglio fare questo film”. Si trattava de “I nostri anni”, il suo primo lungometraggio. E’ stata una produzione difficile: dovunque andassi ricevevo sono risposte negative. L’unico aiuto mi è arrivato dall’allora Tele Più che ha acquistato i diritti televisivi. Alla fine sono riuscito a venirne a capo con pochissimi soldi e indebitandomi. Però il film è andato bene: è stato presentato a Torino e a Cannes, ha ottenuto il premio di qualità e ancora oggi viene noleggiato per il 25 aprile.
Di “Cavalli”, invece, che cosa mi può raccontare?
La storia è ambientata nel periodo tra fine ‘800 e inizio ‘900 e parla di due fratelli orfani di madre. Vivono in montagna e hanno un padre severo che, per renderli più responsabili, regala loro due cavalli. Crescendo i ragazzi sceglieranno due strade diverse: uno farà l’allevatore, l’altro comincerà a viaggiare. E’ un film sulla crescita, su che cosa significa vivere lontani pur essendo fratelli. Tra i protagonisti ci sono due bambini, Vinicio Marchioni, Duccio Camerini e Giulia Michelini. Le riprese inizieranno l’11 aprile, tra l’Abruzzo e la Toscana.
E poi ci sono due film “super indipendenti”…
Gli altri due progetti sono fuori dal sistema, nel senso che si possono definire indipendenti al cento per cento. “Guerre silenziose” è un piccolo film co-prodotto con la Slovenia, una storia intrigante sui retaggi della guerra nella ex Jugoslavia vista dalla parte italiana. “I resti di Bisanzio” lo stiamo girando adesso in Salento: è un lungometraggio sperimentale con delle forme espressive che a volte toccano la video arte.
Come sceglie i “suoi” registi?
Credo molto nel primo approccio e nel fatto che il rapporto possa nascere da una simpatia reciproca. Non concepisco l’idea di lavorare con una persona che non mi piace umanamente, anche se si tratta del regista più bravo del mondo. Il mio punto di riferimento è il mio cellulare: non ho filtri e per questo ricevo una marea di richieste. Ci sono momenti in cui vado di moda, altri in cui si pensa che sia sparito. In ogni modo, al primo incontro sono sempre molto generoso, nel senso che non ho problemi a conoscere le persone. Poi divento come gli altri: ci metto un sacco a leggere le sceneggiature e a rispondere. Ma se scatta il feeling sono molto più veloce!
Come mai i registi che lavorano con lei sono quasi tutti di sinistra?
In realtà non ho mai avuto pregiudizi. Diciamo francamente che il 90 per cento dei registi sono di sinistra, trovarne uno di destra è difficile e se ci sono non mi sono mai capitati. Il problema è un altro: dal momento che finora ho fatto un certo tipo di cinema, si pensa che a me piaccia solo quello. Invece a me piacerebbe produrre anche commedie, l’ho già fatto con “Incantesimo napoletano”, un gioiellino che non c’entra niente con le mie solite pellicole.
Ha detto che in Italia l’unico vero produttore “indipendente” è Aurelio De Laurentiis. Ma lui fa solo film di cassetta…
Se vuoi essere indipendente al suo livello devi fare quel tipo di film. Ma se voli basso puoi produrre anche altro: il mio lavoro lo dimostra.
Se le proponessero un cinepanettone?
Guardi che ci vuole una grande capacità a fare bene il cinepanettone, Checco Zalone o il “Manuale d’amore”. E io non credo di avere gli strumenti per fare bene quel tipo di cinema. Se mi capitasse un film che mi piace molto e posso gestire con le mie risorse, perché no? Francamente, da spettatore, non è che mi piacciono solo i prodotti alla “Pietro”. Anzi, non mi vergogno a dire che ho visto tutti, ma proprio tutti i cinepanettoni.
E’ d’accordo con i tagli ai finanziamenti governativi?
Non posso esserlo, soprattutto in questo momento e in questo sistema. Ho sempre detto che lo Stato non dovrebbe intervenire e che, qualora lo facesse, dovrebbe agire nel modo più democratico possibile, senza sbarramenti di sorta. Ma questo ragionamento avrebbe senso in un mercato davvero aperto: con queste condizioni è impossibile pensare di produrre film importanti senza il sostegno statale.
Molti produttori sono disposti al compromesso pur di ottenere il rinnovo di tax credit e tax shelter…
Se per difendere tax credit e tax shelter dobbiamo rinunciare a tutto il resto non va bene. Mi spiego: uno come me non troverà nulla per un film come “Pietro” e quindi avrà il 15 per cento di 0, mentre il produttore di Zalone prenderà un tax credit su 10 milioni. Ecco perché la battaglia che sta coinvolgendo tutti i produttori, compresi i giovani, non mi vedrà mai schierato positivamente. Credo invece sia necessario difendere l’intervento dello Stato per le opere prime e seconde, e anche oltre. Pensiamo a “Il Divo” e “Gomorra”: senza l’aiuto dello Stato non sarebbero mai esistiti.
Che idea si è fatto della situazione politica attuale?
Mi riempie di tristezza. Viviamo in un paese assurdo, se così non fosse sarebbe già scoppiata una rivoluzione. Il vero problema, però, è che non esiste un’alternativa…
Che cosa pensa della protesta delle donne?
Mi sembra una risposta minima a tutto quello che viene vissuto dalle donne in questo paese. Però è anche una reazione che mi fa un po’ paura: il cambiamento non può venire solo dalla protesta femminile, i cittadini dovrebbero andare sulle barricate tutti insieme, a prescindere dal sesso. Insomma io sono per la rivoluzione armata!
Lei ha diretto anche un documentario su Nichi Vendola…
E’ una lunga intervista che abbiamo realizzato il giorno prima delle Regionali 2005. Con lui ho fatto un gioco: gli dicevo una parola e lui mi rispondeva. Naturalmente le mie parole non erano riferite alla situazione in cui ci trovavamo, ma al suo modo di affrontare la vita dal punto di vista politico. Si è parlato di Partito Comunista, di Berlinguer, dei bambini, di Pasolini. L’intervista è intervallata da materiale di repertorio e da immagini dei suoi comizi.
E’ lui l’alternativa?
Potrebbe esserlo, il problema è che troveranno il modo di eliminare le Primarie.
Chi sono stati i suoi maestri?
Le posso elencare i cinque film più importanti della mia vita: “C’era una volta in America”, “Fino all’ultimo respiro”, “Intrigo internazionale”, “Taxi driver” e “La sottile linea rossa”. Sono stato molto attratto dal cinema di Godard, mentre l’incontro con Gianni Amelio e Giuseppe Cereda al Centro Sperimentale mi ha aperto un mondo nuovo.
Da dove viene il nome della sua prima società di produzione?
Axelotil è la storpiatura del nome di un animale che, a un certo punto della vita, può decidere se assumere le sembianze da adulto o conservare quelle da adolescente.
Una versione della sindrome di Peter Pan…
Una specie (ride).
Il primo progetto da produttore?
Un documentario di due allieve del Centro Sperimentale, si chiamava “Itaunas”. Il primo lungometraggio, invece, è stato “Shishmahal”: l’unico film da regista di Arnaldo Catinari che adesso è direttore della fotografia.
Quali sono le principali difficoltà di un produttore indipendente?
Quando si producono film che di norma ottengono più no che sì, ci si deve inventare ogni volta una storia produttiva. Forse in un altro paese un produttore con i miei risultati avrebbe qualche consenso in più e però non ho mai pensato di scappare dall’Italia. Anche oggi che ho tre figli piccoli, se penso al loro futuro lo immagino qui.
Se non avesse fatto questo lavoro?
Avrei fatto lo scrittore.
La sfida vinta che le ha dato più soddisfazioni?
La più grande vittoria è stata quella di diventare padre senza cambiare il modo di affrontare la vita. Perché un conto è fare il Don Chisciotte quando si è soli, un conto è farlo con la responsabilità di tre figli. Poi ci sono state altre sfide minori: creare una società di distribuzione riuscendo ad imporre un marchio per sette anni per esempio.
Che tipo di padre è?
Un papà molto presente, che ha cambiato ritmi di vita e modi di lavorare senza rinunciare all’indipendenza. Il mio punto di riferimento è il telefono perché spesso cerco di tornare a casa per stare più vicino ai miei figli.
In futuro farà il regista?
Assolutamente no. Adesso girerò un documentario, ma solo perché mi piace l’argomento. In futuro continuerò a fare il produttore, sperando di riuscire a scrivere un po’ di più.
Ha già scritto dei libri?
In libreria c’è “Il camoscio e il borraccino” che ho scritto con la mia prima moglie, Elisabetta Pandimiglio. Nella collana “Cinema Autonomo” ci sono un paio di libricini che ho curato io, e in questi giorni sto scrivendo una biografia.
Il suo scrittore preferito?
Erri De Luca, sono un grande lettore di libri italiani.
In passato ha fatto anche l’attore…
Si, ma solo per divertirmi. Anche se poi è stata una gran fatica: quando ero un po’ più giovane soffrivo di mal di testa e regolarmente, dopo una giornata da attore, non mi reggevo in piedi.
Che consigli darebbe a un giovane attore che sta iniziando la professione?
E’ la categoria più difficile. Gli direi la stessa cosa che dico ai miei allievi del Centro Sperimentale: se ci credete davvero provateci fino in fondo.
Qual è l’errore più ricorrente degli attori?
Continuare a recitare anche quando non sono più in scena. E’ difficile incontrare un attore o un’attrice che riesce ad essere spontaneo al cento per cento.
Le arriva una raccomandazione a cui non può dire di no.
Se penso che la raccomandazione non sia giusta rispondo di no. Mi è successo di recente: pensavo di doverne pagare le conseguenze e invece non ci sono state.
Ha mai pensato a produrre fiction?
Mi piacerebbe ma so per certo di non poterlo fare. E’ un campo quasi inaccessibile e poi non ho le caratteristiche giuste: chi produce fiction deve essere diplomatico e flessibile con la Rete.
Un regista con cui vorrebbe lavorare?
Garrone, nella generazione degli under cinquanta è quello che mi piace di più. Spero di continuare a collaborare con Gaglianone e, a dispetto del suo carattere impossibile, vorrei lavorare di nuovo con Mereu.
Il film che avrebbe voluto produrre?
“Guerra” di Pippo Del Bono e “La pecora nera” di Ascanio Celestini.
Il film che non avrebbe mai prodotto?
Non avrei mai permesso a Massimo Ceccherini di esordire alla regia.
Gli Oscar italiani secondo Arcopinto.
Miglior film “La pecora nera”, Miglior regia “La prima cosa bella” di Paolo Virzì.
Cosa non deve mancare a un buon produttore?
La voglia di sperimentare e una buona dose di fortuna.
A cena con il nemico.
Cenerei volentieri con Riccardo Tozzi, ma non lo ritengo un nemico. E’ una persona diversa con cui mi piacerebbe confrontarmi.
La scelta che le ha cambiato la vita?
Tradire le aspettative della mia famiglia: scegliere il Centro Sperimentale invece della facoltà di Medicina.
Un pregio e un difetto.
Ho il pregio di essere un timido e un solitario. Ma è anche un difetto.
Il vizio di cui non può fare a meno?
La cioccolata.
Il sogno nel cassetto.
Continuare a sognare di fare film.
La sua paura più grande?
Di svegliarmi la mattina e non avere più l’entusiasmo che ho adesso.