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Bif&st 2024: quando il cinema è terapia, Marco Bellocchio e “Marx può aspettare”

Immagine del documentario “Marx può aspettare”

Può il cinema proporsi come una cura? È questo il primo interrogativo che è stato sollevato dal moderatore Enrico Magrelli al Bif&st 2024 nell’incontro tra Marco Bellocchio e lo psichiatra e psicoterapeuta Luigi Cancrini che ha seguito l’affollata proiezione al Teatro Kursaal Santalucia di “Marx può aspettare”, il documentario che il regista piacentino ha realizzato nel 2021.

“In questo caso sì – ha risposto senza esitazione Luigi Cancrini – nel caso del film di Bellocchio si è trattato di una stupenda terapia del lutto. Ci sono diversi modi per elaborare una perdita. Nelle mie terapie mi è capitato, ad esempio, di fare scrivere al paziente una lettera alla persona scomparsa, leggerla insieme, magari leggerla nuovamente al cimitero. Poi ognuno può ricorrere ai mezzi che gli sono più consoni e nel caso di Marco Bellocchio è ovviamente il cinema”.

Il lutto in questione è quello che ha colpito non solo Marco Bellocchio ma tutta la sua famiglia con il suicidio, a 29 anni di età, del fratello gemello Camillo. “Ma la centralità del suicidio di Camillo nel film – ha specificato Bellocchio – non è un qualcosa che è emerso subito. Io, in un primo tempo, volevo solo riprendere i volti e le voci dei miei fratelli e delle mie sorelle prima che qualcuno di loro se ne andasse. Ho approfittato quindi di riprenderli nel corso di alcune riunioni di famiglia, nel corso di cinque anni durante i quali, intanto, stavo facendo altro. Solo a un certo punto è emersa in primo piano la figura di Camillo e il film quindi ha preso una certa direzione”.

Un’altra figura che emerge prepotentemente in “Marx può aspettare” è quella del primogenito della famiglia Bellocchio, Paolo, affetto da una grave forma di schizofrenia. “Oggi vediamo spesso in televisione famiglie che si prendono cura amorevolmente di figli con disturbi mentali – ha osservato Bellocchio – Nella nostra famiglia c’era solo mia madre ad accudirlo, preferendo che restasse con noi in casa piuttosto che affidarlo a un istituto psichiatrico. Noi facevamo quasi finta di non vederlo, provavamo insensibilità se non fastidio nei suoi confronti, non c’è stato mai amore, o un abbraccio, avevamo tutti paura che potesse rovinare la nostra vita, desideravamo che sparisse. Ci siamo quindi interrogati con i miei fratelli se la sua presenza non avesse condizionato Camillo nella sua decisione di togliersi la vita”.

“Vivere accanto al dolore di una persona che ha un disturbo mentale grave effettivamente può fare ammalare – ha ammesso Luigi Cancrini – Tra l’altro, a un certo punto, Paolo e Camillo hanno cominciato a condividere la stessa camera da letto e la sua sofferenza può essere entrata dentro di lui come un veleno sottile. Quando i suoi fratelli sono andati via di casa lui non è riuscito a staccarsi, ma comunque non aveva una casa né un altro posto dove realizzarsi. Per sopravvivere in un tale contesto avrebbe dovuto uscire”.

“Nell’ultimo colloquio che ho avuto con Camillo – ricorda ancora Bellocchio – io avvertivo il suo disagio e gli dicevo che l’impegno rivoluzionario era l’unico modo che aveva per riscattarsi da un’identità borghese che ci bloccava. E lui mi dette quella geniale risposta che è poi diventata il titolo del film”.

“Io stesso – ha ammesso Cancrini – in quegli anni mi occupavo più di politica che della mia professione. Ho trascurato tante cose e poi ho pensato che tante persone che mi volevano bene avrebbero potuto farmelo osservare. Oggi Camillo avrebbe potuto trovare un aiuto che all’epoca non era facile trovare, è molto più facile oggi ricorrere a un sostegno psicoterapeutico. Avrebbe potuto trovare qualcuno che lo ascoltasse, prima ancora di comprenderlo”.

Tornando al film, Bellocchio: “È stato un lavoro eccezionale in quanto unico, che si è infiltrato in qualche modo nelle cose che stavo facendo allora e quelle che avrei fatto dopo. Una presa diretta con tutta la mia vita. Il film cui ad oggi sono più affezionato”.

“Quello di Marco Bellocchio è un cinema davvero particolare – ha concluso Luigi Cancrini – Lui non confeziona film, trova il modo di esporre ciò che è dentro di lui. È una cosa che mi ha sempre colpito molto”.

 

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