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Francesco Scianna: “con Itaker ho cominciato a interpretare”

Intervista a Francesco Scianna

In tanti lo ricordano per aver dato il volto al comunista Peppino di “Baarìa”, il kolossal di Giuseppe Tornatore. Da allora – era il 2009 – il trentenne siciliano Francesco Scianna ne ha fatta di strada. Tra i tanti personaggi è stato il boss Francis Turatello per il “Vallanzasca” di Michele Placido, l’amico de “L’industriale” nel film di Giuliano Montaldo, il poliziotto in incognito per il televisivo “Le cose che restano” di Gianluca Maria Tavarelli, e ora è al cinema come protagonista del drammatico “Itaker – Vietato agli italiani”. “Questa volta sono Benito, un magliaro napoletano che emigra nella Germania degli anni ’60. Con me c’è un bambino trentino in cerca del padre (il piccolo Tiziano Talarico, ndr), mi scontrerò con un capo mafioso interpretato da Michele Placido e mi innamorerò della sua donna (Monica Birladeanu, ndr). Il film racconta la difficile integrazione degli italiani all’estero, un percorso alla ricerca del futuro e dell’identità”. Regista di “Itaker” (nelle sale con Luce Cinecittà) è Toni Trupia, la sceneggiatura invece è di Placido che l’ha anche prodotto con la moglie Federica Vincenti (e il romeno Bobby Paunescu).

Scianna, com’è nata la collaborazione con Placido?
E’ stato Michele a chiamarmi per parlarmi del progetto, voleva propormi il ruolo del protagonista. Già da un primo racconto mi sembrava un film interessante, per la storia e i personaggi che ne facevano parte. In più ho percepito subito che sarebbe stata una bella occasione per interpretare un ruolo diverso da quelli che avevo fatto prima. Ho letto la sceneggiatura e ho notato che c’era vita, emozione, forza, dramma e commedia…insomma un film completo! Conoscevo Trupia perché avevamo collaborato per “Vallanzasca”, soprattutto conoscevo la sua passione e la sua preparazione. Per tutte queste ragioni ero sicuro di affidarmi a una bella squadra: dopo un’ora e mezza avevo letto il copione e avevo accettato. Il personaggio era napoletano, Michele mi assicurava che se avessi accettato sarebbe diventato un siciliano. Non se ne parlava, avrei interpretato un magliaro napoletano.

Come ha preparato il suo Benito?
Ad agosto faceva troppo caldo per andare a Napoli, così ho optato per Ischia dove ho un’amica proprietaria di un hotel. Tutti mi dicevano che ero nel posto sbagliato, perché l’ischitano è diverso dal napoletano. Per fortuna ho trovato un attore che mi ha fornito le prime basi di napoletano, poi mi sono trasferito a Napoli. Lì ho lavorato con i colleghi napoletani e ho parlato con i magliari veri degni anni ’60: rubavo dalla strada le battute, che in seguito abbiamo cercato di inserire in sceneggiatura.

Com’è stato il rapporto con il bambino sul set?
Toni voleva che lo trattassi come l’avrebbe trattato Benito, per dare più autenticità alla storia, e io ero d’accordo. Tiziano ha una sensibilità e una forza che sentivo vicine a me: ne ero attratto ma all’inizio non dovevo esserlo, così ho cercato di individuarne i difetti castrando la parte di me che gli si sarebbe avvicinata. Man mano che il film andava avanti diventava più facile, perché alla fine il rapporto tra il mio personaggio e il ragazzino diventa intimo, come fossero stati padre e figlio.

Qualche critico ha detto che questa è stata la sua interpretazione più bella. E’ d’accordo?
E’ brutto che io giudichi me stesso. Credo sia uno dei ruoli più belli che ho fatto, anche se li ho amati tutti. Per l’età e l’esperienza, spero e sento che da questo film ho cominciato a “interpretare”. E spero di diventare bravo come vorrei…

Da “Baarìa” a “Itaker” ha fatto un bel salto di qualità.
Forse come attore sto nascendo oggi, e ne sono felice. Del resto il bello del mestiere è aspirare a migliorarsi, sempre e comunque.

L’interpretazione di Benito: qualcosa che ha amato e qualcosa che cambierebbe.
Credo che il lavoro sul dialetto napoletano sia stato buono, nonostante il poco tempo a disposizione. E credo di aver toccato diversi registri, ma forse potevo giocare di più. Se mi vedessi al cinema e poi mi incontrassi al bar, di certo avrei questo appunto da farmi: “sì, è un buon lavoro però ti conosco…puoi dare cento volte di più, puoi abbandonarti cento volte di più”.

Oltre a parlare di immigrazione, il film affronta il tema della paternità acquisita. Lei ha mai pensato a un figlio suo?
Qualche anno fa ho provato un forte istinto paterno, ma poi è andato via. Forse è successo perché avevo incontrato la persona giusta, oggi non ho una compagna e non lo sento. Il desiderio di un figlio è qualcosa di irrazionale e viene dall’unione con un’altra persona, quando vivi un bel rapporto d’amore. Io l’ho condiviso con una donna che ho amato: sono convinto che se dovessi ritrovarla succederà di nuovo.

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