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Gomorra-La serie: Fortunato Cerlino, “vi racconto il mio viaggio con gli occhi di un boss”

Intervista a Fortunato Cerlino, il boss Don Pietro Savastano di “Gomorra – La serie”. Sky conferma la seconda stagione.

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di Francesca Lisa

Dopo il successo della serie, diretta da Stefano Sollima, Francesca Comencini e Claudio Cupellini, che ha registrato un enorme successo sia in patria, dall’esordio fino all’ultima puntata, che all’estero, dove è stata venduta in circa 60 Paesi, Sky annuncia già una seconda stagione. Oggi parliamo con Fortunato Cerlino che, a fianco di Maria Pia Calzone, Marco D’Amore e Salvatore Esposito, nella serie veste i panni del boss Don Pietro Savastano, capo famiglia e fondatore dell’omonimo clan.

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Per tutti, almeno in questo periodo, sei Don Pietro Savastano. Immagino che, a parte gli impegni lavorativi, avrai un bel da fare a gestire i fan in fila per il classico autografo.
Questo in effetti è un dato curioso e anche divertente. Venendo dal teatro non sono abituato a questo tipo di esternazioni, con le persone che ti fermano per strada e ti chiedono una foto, ormai a tutti gli effetti sostituta dell’autografo. Nonostante l’interesse e la simpatia della gente, comunque, per indole e formazione tendo a restare con i piedi per terra e a non montarmi la testa (ride).

Come sei stato scelto per la “Gomorra – La serie”, avendo tra l’altro già interpretato un piccolo ruolo nell’omonimo film?
Nel film di Matteo (Garrone, ndr) avevo per l’appunto interpretato un cameo. Ci tenevo molto a far parte di quel progetto che, come la serie, provava a raccontare non Napoli, bensì la camorra. Distinzione d’obbligo, infatti, per chi come noi non ha mai avuto la presunzione di raccontare la città, quanto piuttosto le complesse dinamiche di una realtà criminale che in nessuno modo può né deve essere identificata con Napoli o i napoletani. Per quanto riguarda il casting ho seguito la strada classica: dopo aver sostenuto il provino, sono stato convocato per il call back. All’inizio non avevo idea che fosse per il personaggio di Pietro Savastano, quando poi me l’anno comunicato ho avuto un’esplosione di entusiasmo, dal momento che mi allettava tantissimo l’idea di poter vestire i suoi panni, raccontando un particolare tipo di camorrista e attribuendogli dei tratti che per fortuna sono stati accolti più che positivamente sia da Stefano (Sollima, ndr) che da Laura Muccino, la casting director.

Sia nel caso del tuo personaggio che di quasi tutti gli altri della serie, risulta quasi impossibile, da parte del pubblico, mettere in atto meccanismi di identificazione e affezione tipici della serialità, vista la naturale tendenza di ognuno di essi a restare sempre in un cono d’ombra in cui la violenza regna sovrana e nessuna speranza di redenzione pare possibile. Quello della non-identificazione è un effetto voluto dai realizzatori della serie?
Oltre che voluto, direi addirittura dovuto. Questa serie rappresenta non soltanto un’opera di fiction, ma racconta vicende realmente accadute, storie vissute dalle persone sulla propria pelle. Basti pensare al dramma di Gelsomina Verde, una ragazza totalmente al di fuori delle dinamiche camorristiche, barbaramente finita con un colpo di pistola alla nuca nel 2004 dopo interminabili sevizie da parte di uno degli affiliati al clan Di Lauro. Nella serie la sua storia è stata riproposta volutamente con l’intento di evidenziare una delle tante vicende che, come la sua, vanno al di là di ogni umana comprensione. In questi casi, com’è ovvio, non c’è alcun compiacimento attoriale, ma solo grande professionalità, necessaria a restituire credibilità al racconto.

In che direzione hai lavorato per fare tuo un personaggio così complesso e contraddittorio come quello di Savastano?
Il mio approccio al personaggio di Don Pietro si può paragonare a un viaggio. Da tempo, come attore, lavoro a quella che nel gergo attoriale viene definita “maschera interiore”, per cui il mio interesse è prevalentemente quello di operare tecnicamente  sul corpo e l’emozione, così come sulla modulazione del respiro. Il lavoro su Pietro è stato sfaccettato: come attore avevo il dovere di aderire completamente a questo personaggio, tenendo in considerazione il suo controverso mondo fatto di oscurità, violenza e sostanziale cecità. Riuscire a far mio il modus operandi di un assassino che ordina omicidi con la stessa facilità con cui la gente normale va a fare la spesa, è stata prima di tutto una sfida di credibilità. Per fare ciò ho dovuto adattare la mia “macchina umano/attoriale” a quel tipo di percezione della realtà, dominata da un grande vuoto interiore, che non può essere colmato se non attraverso l’esternazione della violenza. E, nel viaggio di cui parlavo prima, quest’ultima può essere una compagna molto fastidiosa. In tal senso l’intuizione di Sollima e della Muccino di scegliere attori con esperienza si è rivelata vincente.

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Proprio a proposito del casting, al contrario di quanto ci si immagina, nella serie non ci sono attori presi direttamente dalla strada.
In effetti no. Tutti gli attori, anche quelli scelti per piccoli ruoli, hanno esperienze laboratoriali o amatoriali alle spalle, magari in piccoli teatri cittadini o di provincia. Essere attori professionisti significa saper mettere in atto una serie di tecniche per entrare nel personaggio e poi uscirne a momento debito, il che è di fondamentale importanza, specie per una serie come questa.

Convieni, quindi, nel negare un’assimilazione tra l’essere napoletani e l’interpretare più facilmente ruoli in qualche modo “vicini” al proprio contesto socio-culturale?
Decisamente sì. La costruzione di un personaggio è sempre frutto di un enorme lavoro, inoltre mi piace sottolineare come interpretare un personaggio più simile a sé stessi, anche anche solo nel dialetto, non sia per niente un processo scontato, ma spesso addirittura più difficile rispetto a chi non proviene da quella realtà. Sollima, ad esempio, che non è napoletano, si è enormemente appassionato a quei territori, tornandoci a più riprese e con interesse crescente. Credo che alla fine sia tutta una questione di sguardo, uno sguardo che si potrebbe definire psicotico, per cui ci si accorge di ciò che accade solo se si guarda dall’esterno, mentre finché si sta dentro non se ne ha una reale coscienza.

Molte polemiche hanno accompagnato la serie, da chi ha parlato di speculazione ai danni di un territorio e dei suoi abitanti, a chi ha accusato di semplicistica riduzione a intrattenimento televisivo di un fenomeno molto più complesso. Qual è la tua opinione in tal senso? Tra l’altro, che tipo di accoglienza avete ricevuto dagli abitanti di quelle zone, in primis Scampia, durante le riprese?
In merito alle polemiche mi sento in dovere di evidenziare un vizio di fondo, quello cioè di associare, ancora una volta, la camorra a Napoli. Il punto è proprio questo: la serie e, prima ancora, il film e il libro, non sono incentrati su Napoli, perciò chiunque compia questo paragone opera in modo sospetto, oltre che scorretto. Ciò che palesemente viene dimostrato è, anzi, come la camorra sia una realtà che va ben oltre Napoli, estendendosi all’Italia tutta (si pensi a Milano) o addirittura alla Spagna. A tratti, quindi, ho la sensazione che la vera speculazione non si nasconda dietro il nostro lavoro, quanto piuttosto in chi si fa portatore ed amplificatore di tali polemiche. In merito alle riprese, la produzione ha avuto da subito un dialogo aperto con le associazioni locali. Tutti gli abitanti del posto sapevano delle riprese, per cui non abbiamo mai avuto alcun problema a girare. Racconto spesso di un simpatico aneddoto, quello verificatosi prima della cruenta scena dell’omicidio di Bolletta. In quell’occasione me ne stavo seduto, completamente assorto e concentrato sul personaggio, quando una signora del palazzo in cui giravamo mi venne vicino e, preoccupata del fatto che fossi molto pallido, mi invitò a entrare in casa sua per bere un caffè. Chiaramente dovetti farlo e, solo successivamente, tornare a recitare sul set (ride).

Qual era il clima che si respirava sul set, lavorando a contatto con gli altri attori e il resto della troupe?
L’esperienza di lavoro sul set è stata semplicemente grandiosa, da subito infatti si è creato un clima familiare e di supporto reciproco. Con i miei colleghi, tra cui Maria Pia Calzone, Salvatore Esposito e Marco D’Amore, ci complimentavamo a vicenda per una scena riuscita bene o per un’interpretazione particolarmente ad effetto. C’era un reale piacere nel sentir “vibrare” gli attori, insieme alla sincera emozione per il ruolo che si era chiamati a interpretare. E’ stata una vera e propria sfida, sia umana che professionale, che ci ha portato a instaurare un profondo legame, vivissimo anche fuori dal set. Ancora adesso continuiamo infatti a vederci e a condividere tutto ciò che ci accade. In merito alla troupe, tutti, a partire dai registi, hanno sempre operato con grande onestà intellettuale, lavorando in direzione non già del compiacimento professionale, quanto piuttosto di un forte senso di responsabilità nei confronti della storia e, quindi, degli spettatori.

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Parlando di Cerlino attore, da dove nasce la tua passione per la recitazione?
E’ sempre complesso rispondere a questa domanda. Se dei motivi esistono, uno su tutti è senz’altro la necessità di guardare il mondo in modo diverso, vivendo allo stesso tempo più intensamente la propria vita. Parafrasando Eduardo (De Filippo, ndr), sul palcoscenico si recita meglio quello che nella vita si recita male, per cui recitare, per me, è un po’ come vivere con maggiore pienezza, con una sorta di sguardo in più.

La tua è una formazione prettamente teatrale, che ti ha portato a lavorare con grandi maestri della recitazione.
Credo che la formazione teatrale sia una sorta di mappa per ogni attore, uno strumento grazie al quale entrare ed uscire con facilità da molteplici mondi. Ho avuto la fortuna di lavorare con grandi maestri e colleghi, come gli allievi di Grotowski, Nekrosius, Ronconi, tutti capaci di indirizzare il mio sguardo nella giusta direzione. Fondamentale è stato comprendere quanto questo lavoro sia una mediazione continua tra il proprio ego e il servizio che si rende in quanto attori. Per questo mi sento sempre di ringraziare tutte le persone incontrate lungo il mio percorso, dirette in un verso o nell’altro da quell’entità invisibile chiamata autore.

A cosa stai lavorando attualmente, oltre che da attore, in particolare da regista?
Proprio oggi comincio un laboratorio sull’Amleto di Shakespeare, tra l’altro insegno da qualche anno anche al Dams di Cosenza e di Roma. Mi piace molto, infatti, tenere una sorta di palestra per attori professionisti, e non solo. Il 21 e 22 Giugno sarò al Napoli Teatro Festival Italia con una mia regia, “Making Babies”, con Teresa Saponangelo e Lino Musella. Spettacolo scritto e diretto da me, che racconta temi vicini a Gomorra, è anche “Edipo a Terzigno”, che adesso stiamo distribuendo e che ha fatto il suo esordio a Napoli lo scorso anno, accolto molto bene sia dal pubblico che dalla critica, anche lì con un fantastico Lino Musella.

Augurandoti il meglio per i tuoi progetti attuali e futuri, stasera ti aspettiamo su Sky Atlantic con il finale di “Gomorra – La serie”, della quale è già stata annunciata una seconda stagione. Qualche anticipazione su quello che vedremo?
Riguardo a stasera posso solo dire che rimarrete tutti con il fiato sospeso, mentre per la seconda stagione bisognerà aspettare ancora un pò, con la speranza, chiaramente, di non deludere quanti ci hanno seguito con tanta passione in questi mesi.

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1 commento

  1. Salve! mi chiamo pasquale e sono un ragazzo di 39 anni sposato con una bimba di 8 anni.seguo sempre la vostra serie e sono un fans di gomorra,il mio sogno e di fare un provino con gomorra.amo il cinema,anche se non ho mai avuto la possibilità di farlo,x motivi lavorativi.comunque vada la mia richiesta,vorrei dirvi continuate cosi che siete dei grandi registi e artisti,io vi seguirò e sosterrò sempre.Un vostro grande ammiratore!!

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