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Loro “la chiamano estate”, voi non chiamatelo film d’autore

Dileggiato e spernacchiato all’ultimo Festival del Film di Roma, dove ha incredibilmente vinto il premio alla miglior attrice protagonista e, soprattutto, quello alla regia, arriva nelle sale “E la chiamano estate” di Paolo Franchi, uno dei film italiani più sonoramente contestati a memoria d’uomo nella storia del nostro cinema.

Definito da qualcuno come la brutta copia del controverso “Shame” di Steve McQueen (quello che, per intenderci, ha regalato la popolarità a Michael Fassbender), il film racconta la storia di una coppia di quarentenni legata da un sentimento d’amore ma senza sesso. Dino e Anna dividono tutto, si amano ma lui non riesce ad avere rapporti fisici se non con prostitute e scambisti. Lei lo sospetta e ne soffre, lui vorrebbe che qualcuno degli ex, che contatta uno ad uno, tornasse con Anna o quantomeno che lei si facesse un amante.

Accolto in maniera molto maleducata in sala e alla premiazione con sghignazzi, fischi, urla ed estremo sarcasmo, il film di Franchi è, tolto quest’aspetto, indifendibile nella sua bruttezza. Dialoghi ridicoli e volgari, scene pornografiche, fotografia di un bianco abbacinante, lunghi momenti di vuota sospensione, insopportabili voci fuori campo e mancanza di profondità nei temi trattati, non possono che suscitare ilarità e distacco. Pur riconoscendo al cinema di Franchi il coraggio e la voglia di superare le ovvietà e le convenzioni di molto cinema italiano, il suo stile non riesce a centrare questo intento, cadendo spesso nel ridicolo.

Nulla da dire sulle prestazioni (attoriali s’intende, la precisazione è d’obbligo dato il genere di film) di Isabella Ferrari, Filippo Nigro, Luca Argentero, Anita Kravos ed Eva Riccobono, eccezion fatta per la recitazione monocorde e imbambolata di Jean-Marc Barr (il protagonista).

Dispiace dover sentire da Franchi, con nessuna umiltà, scuse che stanno poco in piedi per giustificare il suo film. Non si può parlare di “cultura appiattita ed omologata dalla televisione” di fronte ad una platea di giornalisti e critici che per lavoro vedono oltre 400 film l’anno, né tantomeno affermare, senza alcuna ironia, che si abbia ancora paura del sesso. Arrampicarsi sugli specchi non provoca altro che cadute ben più rovinose.

Nonostante tutto, per chi volesse andarlo a vedere, “E la chiamano estate” (prodotto da Nicoletta Mantovani) è nelle sale dal 22 novembre, distribuito da Officine Ubu, con il divieto ai minori di 14 anni.

Alcuni commenti della critica:

“Il problema vero del film è che dietro i silenzi, dietro le immagini sfocate, dietro certe battute che vorrebbero dire tutto, non offre niente allo spettatore, rivela soltanto una vuotezza imbarazzante. Non è lo Shame italiano ma non è neanche uno dei temi che a Paolo Franchi stanno a cuore. Il cinema italiano e il festival non avevano bisogno di questa caduta”.
Paolo Mereghetti, Corriere della Sera

“(…) Ma il talentuoso regista della Spettatrice e di Nessuna qualità agli eroi, non merita il giudizio sommario. Tanto più se l’insofferenza verso questo film malriuscito stinge in fastidio per tutto ciò che è complesso e di non immediata gratificazione (…).
Il Messaggero

“Un esperimento parzialmente fallito”.
Il Sole 24 Ore

“Non è da tutti riuscire a mettere d’accordo quasi all’unanimità un’intera sala di giornalisti. Da questo punto di vista Paolo Franchi, regista bergamasco che ha presentato ieri mattina E la chiamano estate al Festival del Cinema di Roma, può vantare una traguardo senz’altro raro”.
Il Fatto Quotidiano

“Tocchiamo con mano che il cinema italiano è al capolinea, se neanche la Ferrari ante-retro funziona più da specchietto per le allodole… Quel bianco lattiginoso sparato sullo schermo era sfumato di suo, ma mentre Ken Loach, per esempio, gioca benissimo sull’effetto rough anni Settanta e si comprende che certa rozzezza è voluta, Franchi invece non maneggia i cromatismi a tale livello”.
Il Giornale

“Non bastano però le costruzioni ‘teoriche’, e meno che mai le inquadrature del sesso senza piacere – le scene erotiche sono davvero brutte – o quella misoginia antica per cui le donne stronze rendono i maschi cattivi, per tradurne la contemporaneità. Nel gioco (presunto) di specchi Franchi si perde, e perde anche la sua scommessa”.
Il Manifesto

“Il porno d’autore è una boiata. E paghiamo noi”.
Libero

“Storia di Dino e Anna, E la chiamano estate. Terzo e ultimo italiano in Concorso a Roma, il film di Paolo Franchi non va, proprio non va. Brutto.
Peccato, perché il soggetto – del regista – mette il dito in una delle piaghe più diffuse e recondite oggi, quella dei cosiddetti matrimoni (e unioni) bianchi, dove non si fa sesso, ma ci si ama (…)”.
Federico Pontiggia, Cinematografo.it

“Quello che poteva sembrare uno scherzo diventa improvvisamente lo scandalo di questa settima edizione. Scandalo sì, perché sembra una beffa anche per un regista alla sua opera prima. Perché è come se la giuria non avesse visto i film che ha premiato, perché nemmeno fosse stato l’unico film in concorso, questo era l’unico premio che proprio non gli si poteva dare. Anche il premio per la migliore interpretazione femminile a Isabella Ferrari, protagonista del film di P. Franchi, che credo sia stato anche l’unico film meno recitato della sua carriera. Ma diamogli il premio per la bellezza, che vuoi che sia”.
Manuela Caserta, L’Espresso.it

“Film assolutamente da perdere (…) Paolo Franchi porta in concorso un film assolutamente noioso, lento, che a tratti sfiora il ridicolo. Certamente non siamo riusciti a cogliere e a capire il profondo messaggio filosofico che era nascosto dietro questa ambigua storia d’amore, ma siamo convinti che neanche il pubblico lo coglierà”.
Domenica Quartuccio, EcoDelCinema.com

“Non è facile, tuttavia, girare un film erotico che non sia mera pornografia e che racconti una storia avvincente. Quando il regista colpisce il bersaglio sfiora, come nel caso di Bertolucci con Ultimo tango a Parigi, il capolavoro, altrimenti come nel caso di Paolo Franchi cade, nel migliore dei casi, nel ridicolo”.
GQ Italia

“Se il cinema di Franchi ha l’indiscusso coraggio di andare oltre i canoni consolidati del realismo e oltre le ovvietà di troppo cinema italiano, ancora una volta la sensazione è che i suoi soggetti (sempre interessanti) finiscano per cedere al manierismo del racconto, sprecando i concetti evocati e le inquietudini innescate. Stilisticamente irrisolto, E la chiamano estate soffre in aggiunta di dialoghi automatici il cui problema è la (in)credibilità. La difficoltà di essere creduto traumatizza e compromette qualsiasi relazione con i destinatari del film, mai coinvolti o commossi, mai sfiorati o ‘toccati’. Come Dino, Paolo Franchi sembra abdicare la pratica dell’emozione, finendo travolto dalla sua filosofia, dalla sua idea di cinema autarchico, autistico, ‘suicida’. Un cinema che non ha ‘francamente’ bisogno dello spettatore per essere”.
Marzia Gandolfi, MYmovies.it

“Franchi se la gioca a tutto campo. Con l’aiuto di Jean-Marc Barr crea un personaggio forte e sgradevole sul quale veglia una sensuale e distante Isabella Ferrari. Pone questioni forti e le risolve filmicamente sul piano della pura messinscena. Immerso in una luce bianca e abbacinante quando non è sottratto a un buio livido, il suo film intriga e si muove in modalità che sembrano farsi beffa della guida con pilota automatico, caratteristica della maggioranza della produzione corrente. Insomma, Franchi ha realizzato un film adulto e coraggioso. Un film dolente e forte che si assume il rischio di non piacere perché animato dal desiderio di comunicare alla parie senza trucchetti di sorta con lo spettatore. Non è una scelta di poco conto. Tutt’altro. E la chiamano estate non solo segna un ulteriore scarto in avanti del cinema di Franchi ma si offre come possibilità per un cinema italiano che ha smesso di rischiare da molto tempo”.
Giona A. Nazzaro, Film Tv

“Peccato che si riduca ad una ammorbante sequela di momenti trasudanti comicità involontaria, complici i dialoghi decisamente grotteschi.
E, come di consueto, al di là degli immancabili stralci di sesso esplicito che, secondo una certa critica ‘impegnata’, incarnerebbero in questi casi autorialità anziché pornografia, non ci vengono neppure risparmiati i soliti primi piani del volto perennemente addolorato della Ferrari.
Destinati a testimoniare, al massimo, non solo che non possieda neppure un minimo dell’intensità che Macha Méril sfoderava nella succitata opera godardiana, ma anche che Franchi, a differenza di colui che esordì tramite ‘Fino all’ultimo respiro’ (1960), il quale più lo si odia e più lo si ama a causa del suo discutibile anticonformismo, se continua di questo passo rischia di essere soltanto odiato”.
Francesco Lomuscio, FilmUp.com

“Franchi ama camminare sul filo del rasoio, ama la problematicità, bisogna dargliene atto. Ma i carichi che si è sobbarcato in questa sua ultima fatica gli han fatto perdere inesorabilmente l’equilibrio nel racconto di una storia che avrebbe avuto bisogno di uno spessore artistico e cinematografico ben maggiore per non tramutarsi in un atto di involontario sadismo nei confronti dello spettatore”.
Federico Gironi, ComingSoon.it

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