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Venezia 68: applausi tiepidi e molti fischi per Cristina Comencini

Dal nostro inviato

Alla 68ma Mostra del Cinema di Venezia è il giorno di Cristina Comencini e del suo “Quando la notte”. Seconda pellicola italiana in gara, alla proiezione per la stampa ha raccolto applausi tiepidi, parecchi commenti sarcastici e tanti fischi, soprattutto da parte degli uomini. “Dal mio film emerge forte una maternità non rassicurante e piuttosto pericolosa – spiega la regista – l’ambivalenza dei sentimenti della donna nei confronti del proprio bambino, un misto di odio e amore. La maternità è un lavoro difficile che non si impara da nessuno: inizia con una forte privazione della libertà e si evolve con l’accettazione di un altro essere. Penso che tutti questi temi sono comuni alle donne ma loro non li raccontano a nessuno. Ecco io ho provato ad affrontarli, ma ai Festival le emozioni piacciono poco”.

Tratto dall’omonimo romanzo della regista pubblicato da Feltrinelli, “Quando la notte” racconta la storia di Marina (Claudia Pandolfi), una giovane madre in vacanza in un paesino ai piedi del Monte Rosa (Macugnaga) con il suo bambino di nemmeno due anni. Al primo piano della villetta che prende in affitto vive il proprietario Manfred (Filippo Timi), una guida alpina dai modi ruvidi. Lei è vessata dai continui pianti del bambino e dalla difficoltà ad accettare i cambiamenti di vita dovuti alla maternità, lui è ossessionato dall’odio per le donne che trae origine da un doppio abbandono, quello della madre  a soli nove anni e quello della moglie che si è portata via i figli. Una notte nell’appartamento della donna si sente il pianto del bambino, poi un tonfo e il silenzio. L’uomo interviene portando il piccolo in ospedale: da quel momento si metterà sulle tracce di una verità inconfessabile che Marina ha nascosto a tutti, mentre lei intuirà il segreto familiare di Manfred.

Il film è anche una storia d’amore: “è l’incontro di due solitudini – continua Comencini – che racconto con due monologhi interiori e pochi dialoghi. Non si parla solo di maternità, perché il bambino è anche dell’uomo. Ho voluto rimettere l’uomo al centro del rapporto tra la donna e il bambino”. La madre isolata con il figlio in una località di montagna e le atmosfere da thriller hanno ricordato a molti il delitto di Cogne. La regista non è d’accordo: “non ci ho mai pensato – precisa – capita a tutte le madri di avere dei momenti di solitudine, di essere assalite da un istinto che fai fatica a controllare. Solo chi ha passato un’intera giornata di pioggia chiusa in casa con il figlio può capirlo. Di questi problemi non si parla mai, ma io oggi credo di aver rotto un tabù”.

Gli altri titoli in gara
Presentati oggi al Lido anche “4:44 Last day on earth” di Abel Ferrara, “Hahithalfut” (“The Exchange”) di Eran Kolirin e il film sorpresa rivelato ieri “People Mountain People Sea” di Cai Shangjun, tutti in concorso.

Con “4:44, Last day on earth, che ha ricevuto sentiti applausi e consensi dalla critica, il regista di “Go, go Tales” presenta una pellicola surreale sulla fine del mondo: alle 4 e 44 del mattino la terra sparirà nel nulla e non ci saranno superstiti. I protagonisti, una coppia interpretata da Willem Dafoe e Shanyn Leigh, trascorrono l’ultimo giorno nel loro appartamento di New York. Per essere un’attesa della fine imminente il clima è abbastanza sereno: fanno l’amore, comunicano via Skype (l’uno con la precedente moglie, l’altra con la madre), ballano. In tv scorrono le immagini di un santone buddista che cerca di convincere i telespettatori che la realtà non esiste, Al Gore parla di riscaldamento globale, un giornalista conduce l’ultimo notiziario con professionale distacco. Fuori qualche segno della tragedia: un uomo si butta dal balcone, qualcuno per strada urla la propria disperazione. “Quando sai che devi morire e che il mondo finirà – commenta il regista – alla fine devi accettare la cosa. Due sono le cose certe nella vita: le tasse e la morte. Delle prime sappiamo che dipendono dal fisco, della morte invece non sappiamo da chi dipende”. Chi distruggerà il mondo? Gli chiedono i giornalisti. “E’ sempre l’uomo che distrugge la terra – risponde serafico – e allo stesso tempo sé stesso. Dunque non sarà certo un incidente a dare la morte al mondo, ma saremo noi”.

Arriva da Israele “The exchange”, pellicola sull’alienazione sociale e l’isolamento psicologico diretta dal giovane Kolirin, qui al suo secondo lungometraggio. La vita di un dottorando in fisica all’Università di Tel Aviv viene scandita da episodi grotteschi e surreali. Oded, questo il suo nome, si spegne lentamente: ciò che prima gli appariva normale diventa improvvisamente incomprensibile. Il lavoro è noioso, la relazione con la compagna si appiattisce, le giornate gli sembrano tutte uguali e senza senso. Il ragazzo diviene in sostanza totalmente incapace di provare emozioni o comunicare con gli altri. “Non un film su tante cose – si legge nelle note di regia – piuttosto sulle cose stesse. Tavoli, porte, stanze, sedie: tutte le stranezze che fanno parte delle nostre vite. Strane non perché si nascondono nell’ombra o in qualche sorta di crepuscolo, ma perché appaiono strane alla luce del giorno. L’estraneità di come le cose sono realmente. Il modo di essere delle nostre vite”.

 

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